domenica 25 marzo 2012

Un augurio dal prof. Eugenio Macedonio, a quanti festeggiano il 19 di marzo.

Un augurio alla compagna della vita, Giuseppina e ricordando nell’augurio mia madre e mio padre, accomunati dallo stesso nome, dedico a tutti i Giuseppe un aneddoto  sul massimo ceramista Italiano del ‘900, Peppe Macedonio, mio padre, adatto a far comprendere come nasce distante l’ispirazione, indipendentemente dall’opera d’arte.

L’occasione del racconto mi permette di non far dimenticare quanti per personali scopi, hanno contribuito a denigrare la figura del Maestro, attraverso personali supposizioni.

Nulla di quanto è narrato in queste pagine è di fantasia. Per tale ragione, e per la stravaganza della storia, ho lasciato i nomi di quanti vi parteciparono. Essi ricordano!





Vasi da “Farmacia”, ispirati ai Contributi Regionali per l’editoria.


                                 
La storia ebbe inizio nel 1967 e intende raccontare in qual modo Macedonio, ebbe l’ispirazione e in quale modo realizzò un numero imprecisato di monotipi in ceramica che a uno sguardo superficiale possono apparire come vasi da farmacia.
Premessa.
In cui sono narrati altri e diversificati motivi, in apparenza distanti dai pensiero di Macedonio, più legati a un altrui quanto diverso, momentaneo, in cui l’improvviso interesse per la conoscenza della ceramica, esploso in altre menti, coinvolge una diversa vocazione. Essa genererà una ragione che intrecciandosi con la “ascetica” sapienza del Maestro diventa causa dell’ispirazione che porterà al concepimento di questa serie di monotipi.
Evento descritto in maniera scevra da personali commenti o intercessioni affettive, adatto a dimostrare in maniera non interpretativa, il suo pensiero.
I fallaci tentativi di altre penne, inadatte a descrivere le opere del Maestro, traggono conclusioni arbitrarie e personali, senza fondamento, proferite con l’arroganza e la sfrontatezza d chi senza conoscere, tenta di riempire uno spazio che comunque rimane vuoto e fallace.
Sono tentativi balordi, inadatti a interpretarne il pensiero e l’opera.
Si può immaginare!
Ho ritenuto questa bella storia adatta a far comprendere che scrivere su Macedonio, significa doverne forzosamente conoscerne il pensiero in maniera profonda, poiché esso, sempre ha inizio da punti distanti e impensabili, come accade per quanto segue.
La storia.
Bisogna sapere che in quegli anni, molti cultori in erba avevano scoperto che era possibile pubblicare manoscritti, senza spendere il becco di un quattrino, attraverso l’accesso a fondi Regionali preposti a tale scopo.
Questo fatto, salvando la pace dei meritevoli, generò libri che quasi mai avevano un benché minimo contenuto culturale.
Come dire… ciarpame inutile per la cultura, da cui però, si era scoperto che si poteva attingere per ricavarne un diverso lucro.
La copiosa produzione di manoscritti dava un forte impulso editoriale che produceva materiale non tanto di qualità, quanto adatto alle bancarelle, tanto che molti editori, in seguito, finirono per stampare solo per questa finalità, anticamera di un riciclaggio, poco probabile ma che a sua volta, diventava perfetto come fonte di guadagno. Possibilità che andava relazionata alle Associazioni Culturali di quartiere; nate non casualmente, per lo più sotto l’egemonia delle Parrocchie che in questo ne garantivano l’operato.
Associazioni cosiddette Culturali che appoggiandosi al filone del riciclaggio, molto di moda tra gli sciocchi creduloni, fornivano possibilità a giovani desiderosi di rendersi utili alla Chiesa, subito accontentati attraverso un’equa divisione dei compiti, in cui, da un lato rimanevano i più che ingenti contributi, ricevuti con tale garanzia e dall’altro il lavoro di raccolta, conseguito peraltro a proprie spese.
C’è da dire che In realtà a nessuno interessava il riciclo della carta, perché il costo era superiore all’impresa e non valeva la pena, per questo motivo, le raccolte compiute, erano abbandonate agli angoli delle strade.
In questo sperpero pubblico, gli organi di Stato preposti ai controlli, non avevano voce di merito, poiché la faccenda era in fondo legale; così non solo il danno, ma una beffa in cui l’Ente Regione, approvava un progetto di raccolta adatto a riciclare carta e stracci, sapendo che era impossibile realizzarlo, mentre il Comune approvava gli straordinari degli operatori ecologici per raccogliere e smaltire la materia prima abbandonata sul suolo pubblico.
Questo, accadeva a sostegno della cultura scritta, ma c’era dell’altro.
La difficoltà maggiore cui dovettero far fronte i molti improvvisati “ scrittori” ansiosi di pubblicare le personali ricerche, fu il ricercare il materiale adatto a redigere le loro opere e questo in genere, e in ogni campo, avveniva sfruttando le altrui conoscenze.
Fra i molti personaggi di valore, “corteggiati” per questo scopo  nel campo della ceramica, vi era Peppe Macedonio, “visitato” in considerazione alla sua ben nota disponibilità e al suo sapere  che, andando ben oltre i libri di tecnologia faceva gola ai ricercatori.
Era un periodo in cui vi era sempre una gran quantità di persone per casa, alla ricerca di risposte certe che unite agli stanziali, creavano un discreto affollamento in cui Macedonio in maniera serafica e per niente turbato, svolgeva il suo lavoro.
Questi furono i fatti contingenti, chiari e scevri da alterazioni, adatti tra l’altro a far comprendere il perché oggi molti vantano pubblicazioni culturali.
Esse altro non sono che il risultato di quella fiorente produzione massive.
Nel frattempo e per personale interesse, quest’apoteosi del sapere era in piena virulenza.
Tra i ricercatori, che fruivano di queste possibilità, tenute in gran riserbo e di cui nessuno poteva spiegarsi il perché, vi erano le eccezioni, come il Dott. Guido Donatone, conoscenza di Macedonio collezionista e cultore delle opere e del sapere del Maestro.
Egli, proprio in quel periodo fu incaricato dall’Isveimer, l’Ente Bancario cui era impiegato come dirigente di un settore, di scrivere un libro sulla ceramica.
Considerando che egli non era abituato alla particolare chiassosità della casa studio che vi era in quel periodo e alle centomila interruzioni che impedivano di affrontare un discorso senza perdere il filo del pensiero, chiese al Maestro la cortesia di poter continuare gli incontri presso la propria abitazione, poco distante.
Quest’ampia concomitanza di eventi, fino ad ora narrata condusse alla causa indiretta dell’ispirazione di Macedonio.
Giunti che furono all’ingresso di casa Donatone e avendo egli aperto la porta e fatta strada, il Maestro ebbe la gradita sorpresa di vedere all’improvviso dinanzi a se un’imponente collezione di vasi da farmacia, posti proprio nell’ingresso.
Visione che per un attimo riportò il Maestro indietro nel tempo, alla sua infanzia, ricordando i ripiani cui erano allineati i tanti vasi in ceramica e sul banco con sempre in bella mostra, l’immancabile grande vaso di vetro, colmo di sanguisughe, adatte a “salassi” casalinghi.  Questo ricordo, assaporato con i sensi della fantasia, evocò in Macedonio l’antico profumo della lucidatura dei legni degli arredi e delle spezie, a divenire un’unica essenza classica, indimenticabile.
Fu l’impulso che diede forza al desiderio di fermare quell’emozione, come per tante altre opere ispirate dai suoi stessi ricordi; non memoria nostalgica quindi, ma flash back della sua esistenza che, è simile nei contenuti, non uguale.
Fu la visione dei tanti antichi vasi, che riportando il Maestro di la del tempo, gli diedero un prorompente impulso adatto a trasmutare quanto osservato nel suo animo in una filosofia adatta a palesare nuove quanto simili forme evocative.
Non copia di qualcosa visto e voluto, quanto il materializzare un intimo momento legato ai ricordi personali.
Le stesse forme dei vasi da farmacia realizzate successivamente dal maestro, non sono, quindi, simulacri delle forme ammirate nella collezione del Dott. G. Donatone o ricordi di differenti vasi da farmacia.
Sia chiaro.
Per i fruitori della casa laboratorio, fu un lungo happening, in cui Macedonio, un po’ per gioco un po’ seriamente, cominciò a pensare in quale modo poter costruire l’attrezzo necessario a produrre i vasi. L’attrezzo, altri non era che un tornio, proprio così un tornio per ceramica e questo fatto infervorò ancor più gli animi degli stanziali, forse contribuendo a dare forza al maestro per continuare.
All’esecuzione del progetto tecnico erano presenti Evangelista, Pippo, Leonetti, Mautone, Centorbi mentre gli altri frequentatori saltuari si avvicendavano per motivi diversi.
La ricerca tecnologica.
La logica voleva che Macedonio incaricasse Rovinolo, oppure Riparini, due più che validi tornianti, antiche conoscenze del Maestro, (almeno per Rovinolo fin dagli anni ’30), ma per farlo avrebbe dovuto muoversi da casa e questo voleva evitarlo…
Così fece come il solito, di necessità virtù, giocando con la fantasia e la proverbiale manualità.
In realtà, da tempo immemorabile, nella casa studio esisteva già una tornietta o torniolo per ceramiche, molto robusto e solido, adatto per dipingere oggetti rotondi su cui era sufficiente posizionare l’oggetto da dipingere, appoggiarvi il pennello intriso di colore e girare la tornietta per ottenere sull’oggetto delle strisce colorate.
Strumento mai utilizzato…
Ebbene, Macedonio pensò di trasformare quest’oggetto in un tornio da ceramista, modificandolo empiricamente.
Erano anni del Maestro, maturi e spensierati.
Si procurò una puleggia da alternatore completa di asse, un trapano dalla velocità variabile, a quei tempi una raffinatezza della scienza e della tecnica, un paio di vecchie calze della moglie Pina, a completamento della lista del materiale occorrente.
Fissò la tornietta al piano di lavoro molto saldamente e poco più distante, praticò un buco cieco nel legno del tavolo in cui inserì l’asse della puleggia che dal lato opposto fu fissato al mandrino del trapano tenuto verticale a mano.
Il tutto era traballante e molto precario, ma non importava; annodò strettamente le calze e ne fece una cinghia di poco più stretta della lunghezza del periplo, inserendola tra l’asse del torniello e la puleggia, in modo che, raddrizzando il trapano, si sarebbe tesa, trasmettendo i giri al torniello: questo era il tornio.
Le risate, i commenti e le prove fioccavano da ogni parte e l’ilarità accompagnava il tutto, tanto che addirittura ci si dimenticava cosa si stesse facendo.
Terminata la costruzione, ingrassato il torniello e il buco cieco nel legno che manteneva l’asse della puleggia, tale opera tecnologica fu pronta ad accogliere la creta per la prova generale.  
Per funzionare, però, si abbisognava che una persona attivasse il trapano, badando di variare la potenza secondo l’attrito delle mani del maestro sulla creta, tenendo in tensione la cinghia-calza, in modo da non farla slittare intorno agli assi.
Durante le prove si scoprì che l’argilla doveva essere più morbida rispetto al solito per produrre meno attrito, ma non tanto altrimenti sarebbe collassata.
Insomma si studiarono le misure da adottare.
Ci volle un po’ di tempo per raggiungere un optimum adatto a realizzare dei monotipi, ma erano a buon punto.
Si comprenda però che Macedonio non poteva dedicarvi tutto il suo tempo, ma solo i ritagli, impegnato com’era a insegnare nella scuola e a produrre altre opere.
Dagli e ridagli alla fine si riuscì nell’intento, avendo trovato un equilibrio permissivo.
Era una domenica pomeriggio quando Macedonio pensò di iniziare la produzione dei monotipi; ricordo che si era alle quattro del pomeriggio, il sole era ancora alto, quando avvenne ciò che a tutti gli effetti si poté definire un vero “miracolo”.
Era giunto, per una visita di piacere, Rovinolo, il maestro torniante!
Figura altera e molto elegante, somigliante a Vittorio de Sica, uomo dal bel portamento; quel giorno indossava un completo estivo grigio chiaro in canapa e un cappello intonato a falde, scarpe nere chiuse, lucidissime.
Non vi racconto cosa accadde ma alla fine di quanto non detto e non scritto, ritroviamo il gentile Rovinolo, spogliato degli abiti eleganti e  indossato qualcosa di più modesto, con le scarpe infilate in due sacchetti di plastica, coinvolto a provare il funzionamento di questa opera tecnologica, battezzata dal quorum la “settima meraviglia”
Si mise in movimento l’apparato ma, si vuole per l’emozione o per una casualità emotiva, la prova fu un fiasco totale, l’opera in creta cresciuta in altezza, si proiettò quasi danzando fuori dal pseudo tornio.
Eppure in precedenza sembrava avesse ben funzionato.
Fu questa disfatta che rese esitante il bravo torniante che cominciava a divertirsi, oramai anch’egli preso da questa febbre e deciso a realizzare l’irrealizzabile, il più emozionato era Pippo, responsabile della velocità del trapano che, sotto nuove indicazioni di Rovinolo, badava a tenere costante e lenta la rotazione del tornio.  
Dopo diverse prove e molte risate (l’allegria era di casa nell’abitazione-studio del Maestro) il primo vaso riuscì, con l’esultanza di tutti, da Centorbi a Mautone, da Leonetti a Evangelista mentre Pippo era felice di essere divenuto super esperto.
In quell’occasione Rovinolo, uomo di spirito e per l’antica amicizia nei confronti di Macedonio, dopo i vasi fece anche i coperchi.
In realtà fu il travolgente entusiasmo a far si che nonostante l’attrezzo bislacco, riuscisse a realizzare un numero imprecisato di vasi, velocissimo e bravissimo, tutti perfettamente uguali, utilizzando come “mostra” per l’altezza da conferire ai vasi e alle svasature, tre tranci d’uva infilati nella creta.
Nella realizzazione, modificarono anche la forma, facendone alcuni cilindrici con un coperchio a forma di tronco di cono molto basso che terminava con un pallino.
Non vi è alcuna rappresentazione fotografica di questo secondo modello di vaso cilindrico, lo s’intravede in una foto d’insieme, scattata anni dopo, divenuto un porta stecche di lavorazione per Macedonio.
Gli altri vasi, sul modello “farmacia degli incurabili”, come da immagine, furono rifiniti poi in seguito da Macedonio, cotti, dipinti e ricotti.
Macedonio non realizzò molti esemplari, anche se non posso dire il numero esatto. Tra i due diversi modelli, a un calcolo approssimativo non furono più di una quindicina.
Ebbi appena il tempo di fotografare gli ultimi due rimasti, prima che finissero in anonime collezioni, anche se uno era imperfetto nella chiusura, mentre il secondo addirittura roto in più parti e incollato da Macedonio stesso.
Con questo racconto che altro non è se non una lunga prefazione, si comprende come spesso la musa ispiratrice possa partire da concetti lontani e discosti.
Filosofie che certo se non si conosceranno mai osservando l’opera permettendo di farne al più una sommaria descrizione.
L’opera.
Macedonio fu folgorato dall’aspetto d’insieme degli antichi vasi volle riproporli. Non ebbe mai intenzione di ripetere le antiche forme come copie conformi, quanto di mantenerne il ricordo alla memoria sotto forma di nuovi contenitori.
Osservandoli non si può fare a meno di vedere la colorazione diversa, lasciata ad altro estro, in cui Macedonio si abbandona a una pura, fresca, quanto estemporanea ispirazione di pittura paesaggistica, lontana dal concetto primevo.
Omette intenzionalmente l’etichetta del nome ipotetico del prodotto che in teoria, un vaso farmaceutico, deve possedere per tradizione e questo da solo ne distoglie il concetto allontanandolo dall’antica ispirazione.
Una concomitanza di eventi lontani, da cui non casualmente nasce un’opera filosoficamente nuova, la cui forma non permette che si perda l’antica memoria e avendo compreso l’intendimento del Maestro, comprendiamo che solo su di un lato della sua superficie è dipinto un paesaggio, il lato a vista, come si dice, mentre sull’altro lato, vi è una strana quanto incomprensibile immagine del cui significato c’interesseremo nella conclusione, poiché Macedonio riserva sempre delle sorprese.
Ogni monotipo è simile ma diverso nella colorazione, dovuto alla rappresentazione spontanea e occasionale, non manierata, espressione di una scuola pittorica da acquerello, veloce nel tratto e fresco nell’immagine, la cui lettura ci mostra un panorama di tipo medioevale di un bel blu cobalto.
Può piacere o lasciare indifferenti, anche se come profondo, quanto unico conoscitore di Macedonio, posso affermare che trovo sempre stupefacente, osservando le sue opere, sentire lo sguardo penetrare nella profondità delle immagini e fondersi in esso, comprendendo quanto lo stesso maestro ha inteso, ottenuta con pochi, quanto saggi e veloci tratti di pennello.
Quanto invece rimane particolarmente a cuore, è chiarire il concetto sulla colorazione usata da Macedonio.  Senza mai fare dimenticare che in pubblicazioni di poco interesse, una amanuense totalmente impreparata, tentò fallendo miseramente nell’impresa, di dare un senso a Vietri,  Macedonio e il verderame, lasciando solo miseramente comprendere  come la mancanza di conoscenze permette solo una personale interpretazione, inutile, quanto irriverente nei confronti di quanti leggono.
Ragione per dare personali chiarimenti sul colore e le tradizioni.
Macedonio per questi vasi volle usare una colorazione blu cobalto, ritenendolo piacevole e distensivo, certamente senza pensare che tale colore potesse appartenere alla tradizione della ceramica di Delft, Olanda.
Ogni colore rientra in una differente tradizione.
Nel caso che Macedonio al posto del blu avesse scelto il giallo aranciato, sarebbe rientrato nella tradizione di “Cerreto Sannita”, mentre scegliendo il manganese sarebbe rientrato nella tradizione delle belle ceramiche di Cava dei Tirreni che usa  quella colorazione, mentre usando il verderame, rientrava, senza scampo in quel che è la tradizione vietrese.
Si comprende, da questo miserrimo specchietto che ogni colore per ceramica, sia parte di una diversa tradizione pittorica, Regionale, Nazionale o Europea e che la sua scelta comporta la possibilità di appartenenza ipotetica per la tradizione, non certo per l’uso della tinta.
Così ci si auspica di non leggere più su Macedonio, concetti raffazzonati.
Rimane da decifrare il significato di quello strano disegno posto nel lato nascosto del vaso a forma di stemma gentilizio ma che a una più attenta osservazione non richiama concetti di nobiltà.
L’interno del blasone sembra contenga il disegno di una bilancia, ma in realtà anche questo è in forse. I due bordi che in alto si arrotolano, sembrano occhi, mentre le stesse linee scendendo verso il basso, disegnano un volto dagli zigomi alti dal contorno idealizzato, mentre in basso, si richiude nel mento.
Il volto al centro ha uno strano segno che non è il simbolo della legalità, cioè la bilancia, quando il segno zodiacale del Mastro, cui la parte centrale, assume anche il ruolo di naso e di baffo.
Un autoritratto burlesco dove, con un gioco criptico, il Maestro sembra sfidare l’osservatore a rilevarlo.
Con ironia ha giocato sulla cultura superficiale delle persone, creando un qualcosa che in realtà non esiste ma che chi lo guarda crede di conoscere.
Anche qui ha lasciato libertà concettuale … chi osserva trae personali conclusioni secondo della sensibilità, cultura o presunzione, mentre in realtà è tutt’altra cosa.

Un augurio di cuore ai Giuseppe, in particolare a mio padre, massimo ceramista del ‘900, non al  maiolicaro scultore da bottega, come viene  descritto da cari amici di “cultura”, con l’assenso della figlia lucia. Vergogna!
Ciao papà tanti auguri.
Tuo figlio Eugenio.
Ricordo a quanti sono di memoria corta e coscienza sorda che è importante avere fede e non disperare, gli effetti dell’anatema quanto prima si faranno sentire, so per certo che proseguono inarrestabili nel percorso prestabilito, con lentezza ma senza soste, offrendo quanto promette soltanto a quanti hanno acquisito il dritto di fruirne.

venerdì 6 gennaio 2012

Quesiti particolari


Dalle letture del prof. Eugenio Macedonio.
Personale Strenna d’augurio per l’Epifania.

Una maldicenza sull’opera dell’Arch. Carlo Cocchia.
L’opera di Carlo Cocchia, viene a essere sminuita nell’essenza dai riporti di una impreparata manovalanza, attraverso quanto pubblicato nel (catalogo 2011,Pag73, rigo31-35). Ricordando che Ispirato, è sinonimo d’imitato che in lingua italiana vuol dire copiato.
Un’intrigante e all’apparenza innocente frase:“…l’intero impianto traeva ispirazione dalle scenografiche architetture settecentesche prima fra tutte la reggia di Caserta, dove sia il verde che l’acqua erano considerati elementi essenziali del progetto architettonico. Scritta dall’impreparata manovalanza assunta per l’occasione, apre un enigma sul perché l’Architetto Carlo Cocchia progettò la Grande fontana della Mostra d’oltremare e il parco, ispirandosi alla reggia di Caserta senza comprendere il perché il prof. G. Borrelli e il figlio emule, tacquero.
Occasione per mostrare l’interessante passaggio storico dell’Arch. Carlo Cocchia.
Evento che ne dà fortuna a quanti non conoscono questo storico particolare, qui d’appresso narrato dal sottoscritto.
È spontaneo, un atto d’amore proteso a salvare la realtà oggettiva, storpiata senza vergogna da chi pensa, presume e azzarda, senza conoscere.
Paleserò due punti del progetto di ripristino della grande fontana, ad opera dell’Architetto C. Cocchia, adatti allo smantellamento di quanto da altri, falsamente affermato.
La  scenografia di contorno e il parco antistante.
Fu l’esplicazione del genio di Cocchia, continuava Macedonio nel suo racconto, spronato in questa scelta da pensieri tanto semplici nella loro complessità da superare il talento stesso del genio.
Egli pensò al suo futuro come un padre pensa alle proprie creature, prevedendo a lasciare immutata la scenografia retrostante certo di cosa sarebbe accaduto di lì a pochi anni, e con gli strumenti in suo possesso, richiese e ottenere dal Comune di Napoli che la collina retrostante la grande fontana, fosse dichiarata suolo non edificabile e iscritta nella tabella di ruolo “H1” dello stesso Comune.
Questo, non per scimmiottare settecentesche opere ma per una ben più seria ragione, mantenere inalterato, la scenografia dei luoghi, evitando che in futuro le luci degli appartamenti, in seguito costruiti sul pendio della collina alle spalle della fontana, ne disturbassero l’effetto scenico e coloristico.
Aveva forse torto?
Si ritrova in quest’azione un’attinenza con La fontana di Caserta?
Certamente no!!
La seconda possibilità riguarda la parte antistante della grande fontana, il parco.
D’altra parte, vasche escluse non vi è più niente cui appigliarsi, per indi poi…
Lo strano vialone, che viene avanti dalla fontana, ampio e generoso nelle forme, riportando quella particolare curvatura della pavimentazione, adatta a riflettere il suono, contornato da alberi e di vasche dalla duplice foggia, sono oggi esempi ancor più rappresentativi di un sommo pensiero.
Il vialone è e rimane espressione di un concetto scenotecnico e non certamente scenografico, (la differenza tra questi due termini è sostanziale), usato dal Cocchia per risolvere ancor più grandi problematiche d’appresso rivelate, non certo d’acqua, come per la Reggia di Caserta, per questo scopo vi erano gli ingegneri preposti, quanto…, di suono.
La grande fontana, infatti, doveva funzionare al ritmo del suono a cui erano abbinate luci e zampilli, non vi racconto con quali macchinari dell’epoca, poiché questa è un’altra storia.
L’Arch. Carlo Cocchia, ebbe invece il compito, come architetto, di rendere il suono in maniera cristallina e senza echi, da qualsiasi punto si ascoltasse.
Cosa dall’apparenza semplice, per farsi un’idea, si pensi alle difficoltà di sistemare  solo tre amplificatori  per le feste di piazza.
Il suono fuoriusciva da decine e decine di altoparlanti, posti non soltanto in prossimità della fontana, ma in tutta l’area in uso.
Cioè a dire per tutta la Mostra d’Oltremare.
Egli, concretò una soluzione adatta a risolvere un complesso e altrimenti irrisolvibile problema di acustica, modificando e trasformando la passeggiata in qualcosa che avrebbe raccolto e riflesso il suono verso l’alto disperdendolo, non un settecentesco leziosismo, inadatto a un viale impossibile da percorrere a fontana in funzione.
Si sa che un suono quando si espande e urta una superficie solida, rimbalza, creando echi e rintroni, quindi se si può, è meglio allontnarlo.
Studi risalenti a periodi storici Assiri, poi Greci, mantennero nel teatro il suono proveniente dal proscenio, limpido e cristallino in qualsiasi punto della platea, ripresi e ampliati in epoche successive per meglio ascoltare il suono prodotto dagli Organi da chiesa, modificando perfino le decorazioni interne delle stesse, in pietra o in marmo, poi in “cartapesta”, adatte ad assorbire meglio le onde sonore dello strumento e le voci della Schola cantorum annessa, favorendo un ascolto cristallino.
In tempi successivi, l’inedia dei nobiluomini del ‘700, ampliarono e modificarono questo concetto, desiderando essere allietati da musici e conforti canori, nei mesi estivi, al riparo di freschi boschetti, ascoltando la musica, richiesta senza distorsioni.
L’Architetto Carlo Cocchia applica questi studi.
Per questa ragione, e non per altro scopo, furono messi a dimora centinaia di pini, e altre similari piante, tutte sempreverdi e adatte con il loro fogliame a rompere il suono.
In realtà e per i successivi discorsi dell’Architetto con mio Padre, e con il direttore delle serre botaniche, visitando i padiglioni in cui la sig. Diana Franco di lì a poco avrebbe decorato, ne conta circa 850\860 unità.
Rimane ovvio che in queste non sono calcolate le diverse piante da fusto poste in zone limitrofe all’area né tantomeno quelle preesistenti.
Ad opera terminata, osservando bene tra il folto dei boschetti, si comprende che la musica diffusa da decine e decine di altoparlanti, posti in doppia fila alla destra e alla sinistra delle vasche circolari, lungo tutto il percorso e oltre, offre un suono libero da scorie.
Grazie non soltanto alle foglie che fungendo da “spugne, assorbono le rifrazioni e i riverberi, lasciando il suono limpido e pulito.
Non si nega il genio, coprendolo con meschine supposizioni senza costrutto.
Questa importante ragione mi fa qui esprimere un chiaro disaccordo verso quanti sostengono un’omertà di lavoro, adottata con indifferenza dalla grande fauna della cultura, pur comprendendo che ciò non permette di pronunciarsi secondo un personale aperto, dotto parere, se non promuovendo le stesse “mezze” verità da altri già espresse, mentre del nuovo, delle infangature dell’arte e di quanto trascina in basso la cultura, come qui riportato, si tace, come non fosse problema universale.
Almeno, c’è la Befana o meglio, in questo caso il “Befanone”, qui sostituita dal sottoscritto, per la comune coscienza, per chi scrive con superficialità offensivi paragoni, per quanti lo ha permesso e soprattutto per chi, avendone le possibilità, neanche velatamente ostacola lo scempio.
                                                       A rileggerci presto,  prof. Eugenio Macedonio

domenica 1 gennaio 2012

Interrogativi del Prof. Eugenio Macedonio

Dalle letture del prof. Eugenio Macedonio.
Quesiti molto particolari
Personale Strenna d’augurio per il 2012.
Un intrigante e all’apparenza innocente frase è scritta nel catalogo, sul Ceramista Peppe Macedonio ediz. 2011, alla Pag73, rigo31-35.  
Essa riguarda la grande fontana della Mostra d’Oltremare, del cui progetto s’interessò l’Arch. Carlo Cocchia.
L’argomento è così riportato: l’intero impianto traeva ispirazione dalle scenografiche architetture settecentesche prima fra tutte la reggia di Caserta, dove sia il verde che l’acqua erano considerati elementi essenziali del progetto architettonico.
Un’affermazione che non lascia trapelare il modo in cui può essere offensiva, se non si conoscono i fatti, frase all’apparenza vuota di contenuti ma, vedremo dalla risposta in qual modo offende e mortifica il pensiero dell’Arch. Carlo cocchia.
Per ben comprendere la logistica, bisogna almeno superficialmente conoscere l’entroterra culturale in cui è stata creata.
Giusto per meglio apprezzarne poi la soluzione.
La generica e profonda superficialità del volume che contiene la frase, è legato all’averlo affidato a persone mancanti di ogni pur minima cognizione sulla vita e le opere del Maestro ceramista, (in questa affermazione, s’intende l’intera equipe preposta al catalogo).
Si sa che storicamente la cosa fu voluta dalla stessa Lucia Macedonio, che in un gesto tanto superficiale da scivolare nell’essere incosciente,  compie un azione a lei comune, certamente avventata per non dire uterina, e ben programmata nel tempo, che mirando a escludere il sottoscritto, allettata da personali ragioni che esulano dalla cultura o dall’affetto filiale, compie il gesto inconsulto. Adatto ad arrecare un incalcolabile danno non solo alla figura dello stesso padre, quanto alla storia che tentano di far conoscere, attraverso errori ed omissioni, di cui, uno dei tanti esempi è qui riportato.
Altri si ricorda sono contenuti nel documento distribuito gratuitamente e su richiesta o in forma anonima scaricabile da questo stesso blog).  
Ella, Lucia,  affida senza poi seguirne le sorti, la parte più delicata, la stesura della vita e opere a un’ignara “collaboratrice”, totalmente impreparata al compito affidatole, inadatta  ma che per gloria, accetta.
Non conoscendo minimamente le cognizioni storiche e culturali sulla vita e le opere di Macedonio è costretta a svariati pellegrinaggi, verso una memoria ritenuta certa, il prof. G. Borrelli che da quanto il volume riporta, sembra sia tutt’altro.
Un bel modo di ripagarlo, con questo bel favore.
D’altro canto anche il comitato scientifico, per altro mancante di un membro dalla specifica esperienza, confida ciecamente sulle informazioni ricevute dalla memoria storica e certi del risultato neanche controllano quanto è riportato.
Deduco che nel caso il controllo fosse avvenuto, lascerebbe comprende con maggior  terrore che lo stesso comitato non ha avuto neanche le capacità culturali non di agire quanto di comprendere. Fallendo miseramente nello scopo.
Si comprende che in questa storia, ognuno tenta di trarne un profitto, certamente diverso l’uno dall’altro, e lontano dalla cultura, spolpando Macedonio.
Cosa dal sottoscritto a suo tempo già denunziata ai patrocinatori del progetto che ne hanno perso atto.
Poi al danno la beffa, per il mondo.  
In questa totale disfatta la stessa compilatrice dell’opera “eccelsa”, si sente eguagliata al Sommo Poeta, tanta la prosopopea proferita, senza pensare al pasticcio combinato cercando almeno di arginarne l’orrore da essa compiuto manualmente e voluto dalla figlia del grande Maestro, Lucia. 
Scarabocchi di scritti, in una compilazione vergognosa, che mai appagata, rafforza i concetti in modo che ogni opera e ogni personaggio, sembri fosse copiato da qualcuno o qualcosa d’altro.
Altri libri possono essere ugualmente interessanti come sostitutive letture.
Questa volta ho scelto un racconto riportato in una doppia versione, integrale o edulcorata per l’infanzia che mi accingo a proporre. 
È una favola dei fratelli Grimm, “I musicanti di Brema”, la cui storia, in maniera indifferente, offre la possibilità a “quattro” straccioni di far soldi attraverso un artifizio bello e buono, che coinvolge e mortifica persone per bene e membri della comunità, alle spalle di altri ignari, per un unico, proprio tornaconto.
Ogni allusione a persone o cose è puramente casuale.
Una storia che insegna più di un precedente romanzo, già proposto, il cui titolo:  “Quattro personaggi in cerca d’autore”, non è però tanto piaciuto, chissà perchè.
Ritornando all’interrogativo, si spiega che nella frase riportata, si ragiona su di un terreno comprensivo della professionalità dell’ Arch. Carlo Cocchia, che posso personalmente assicurarvi, è immensa.
Senza specifiche conoscenze si potrà quindi solo millantare il suo lavoro.
Proferirò che gli studi compiuti per edificare la fontana della Reggia di Caserta, usando un veloce aforisma napoletano, riportato qui d’appresso in forma epurata e italianizzata, c’entra nel progetto della grande fontana della Mostra d’Oltremare, come quanti : “hanno  scambiato il Cabip bipo con la banca dell’acqua”. Volendo intendere che entrambi versano acqua, ma in quale diverso modo!!!

Il prof. Eugenio Macedonio in una forma scherzosamente dotta, ricordando il quesito: perchè l’architetto Carlo Cocchia progettò la Grande fontana della Mostra d’oltremare e il parco, suo contenitore, a quel modo?  Avrà piacere di rispondere su questo stesso blog il giorno della befana.
                                      A rileggerci presto,  Vostro prof. Eugenio Macedonio.

giovedì 22 dicembre 2011

Strenna per il Santo Natale.


Si propone un quesito culturale complesso, avvenuto Intorno al massimo Ceramista del ‘900, Peppe Macedonio.
Dagli interrogativi del prof. Eugenio Macedonio.
A pag. 126, rigo 9-15 (inciso 101) del Catalogo 2011 sul Ceramista Macedonio, un breve ma intenso riporto sulle opere poste nell’androne del palazzo detto “delle Maestre”, sito in via Cilea, rappresentanti le quattro fondamentali scoperte dell’uomo,fa intendere che esse non sarebbero la leva, la ruota, il fuoco e la fusione dei metalli, come interpretate e rappresentate dallo stesso Macedonio!
Il catalogo sopra citato, anche se in maniera rabberciata e insufficiente, riporta che tali scoperte furono invece tre, di cui l’ultima simboleggia gli artigiani del vetro.
Affermazione che appoggia e sostiene la tesi di un ipotetico errore del Maestro Macedonio, e non quella in cui qualcuno abbia sostituito il pensiero e la volontà del Maestro con il proprio, e in più affermando asinate!
La compilatrice del catalogo, S. Catullo, indica l’origine di questa erronea affermazione a quanto scritto dal signor Napolitano Giorgio, alla pag. 107 della “La ceramica di Posillipo”, a sua firma.
Se così realmente fosse, ciò che si legge, sarebbe un concetto eticamente scorrettonei confronti del Ceramista Macedonio.
Non conosco il passo citato, opera del Sig. G. Napolitano, esso fin troppo breve, non lascia comprendere ma, se quanto si afferma fosse vero, sarebbe un’altra arbitraria affermazione, ai danni del Maestro, nonché sinonimo di ignoranza.
Tutti sanno che una delle scoperte fondamentali per la civiltà non fu di certo il vetro,bensì la fusione dei metalli e dunque, quale fine può avere quest’affermazione?.
Nella stessa pagina dei due stessi volumi e con lo stesso riporto n°101 vi è un inciso in cui sempre a responsabilità della compilatrice, siafferma che il sig. G. Napolitano conferma il possesso di due presunti bozzetti di Macedoniosulle scoperte dell’umanità, stesse opere, stesso “palazzo delle maestre” in via Cilea.
La dicitura “presunti” bozzetti, se vera, è un’affermazione arbitraria, se non un’illazione alquanto truffaldina.
Non avendo letta questa pubblicazione, sono costretto a rifarmi  su quanto riportato nel più che impreciso catalogo.
Questi sono i fatti che interessano il quesito, a essi, per rendere la domanda più chiara, aggiungo alcuni indizi e descrizioni atti ad avvantaggiare la deduzione.
È cosa nota a tutti che quanto riportato nel catalogo 2011 su Macedonio, proviene dalla gentile disponibilità del prof. Gennaro Borrelli, (più volte confermato dalla stessa Lucia Macedonio che ha la profonda responsabilità morale di aver autorizzato questa discutibile e per Macedonio insalubre pubblicazione).
Si sa con altrettanta certezza della“inadeguatae impropria cultura” di chi è stata chiamata a compilare manualmente il catalogo2011 sul Ceramista Peppe Macedonio, persona priva di precedenti esperienze in merito.
Come si sa che il cosiddetto Comitato Scientifico, avrebbe dovuto vigilare sull’operato, mentre è chiaro che così non è stato, confermato da uno dei membri,(ignoranza o strafottenza?!). I responsabili noti e occulti, erano e sono coscienti che riportare affermazioni delgenere, sui presunti bozzetti, (a Napoli si dice: il presunto ebbe trent’anni),e sulla scoperta del vetro, al posto del metallo, avrebbe esposto l’autorea una condizione almeno imbarazzante, sia nei confronti del Ceramista Macedoniosia del sottoscritto (memoria storica del Maestro), oltre che verso quanti leggono…, sapendo.
Il fatto che più degli altri fa sorgere il dubbio adatto al quesito, è proprio l’argomento scelto, che con parole sibilline e ben sistematotra le righe, dà la certezza sia stato architettatoper colpire.
Ciò che non si comprende è per quale ragione e verso chi?!
Riporti che partendodal prof. G borrelli per mano di S. Catullo, colpendo Macedonio, ricadono su G. Napolitano.
Alla luce di quanto esposto, si domanda: per quale ragione il prof G. Borrelli, per mano di Stefania Catullo, ha “divulgato” quanto scritto dal Sig. G. Napolitano su Macedonio? 
Considerando che tali informazioni sono del tutto superflue al lettore!
Un quesito complesso, non tanto “giocoso”, quanto appassionante.
Occasione di confronto razionale, tra il pensiero di quanti hanno inteso fare cultura abusando di Macedonio.
Il sottoscritto in questa tenzone, rimane neutro osservatore dei fatti evidenziati, convinto che quanto riposto in questa, spero gradita Strenna, sarà ignorato dai tre interessati, preferendo non “sputtanarsi” vicendevolmente, certi che siameglio glissare piuttosto che esporsi, in attesa che tutto cada nell’oblio...
convinto che, loro.
Una storia avvincente adatta a un Santo Natale di coscienza.
Il mondo culturale serio, della ceramica Partenopea, non saprà mai del perché di questo inutile dire, sarà allora interessante ascoltare i graditissimi e colti commentiadatti a offrire quellaconoscenza che colmando i vuoti storici, tramutano una sciocca trama in cultura.
Prego, vogliate pubblicare i commenti direttamente su facebook.
A Natale più che in altri momenti, questi serpentini eventi riempiono il cuore di quanto la coscienzanon ama ricordare.(citazione di E. Macedonio)
Vostro Eugenio prof. Macedonio.P. s. Anticiperò che, per fine d’anno ci sarà un altro interessante quesito, questa volta ai danni dell’Arch. Carlo Cocchia.

giovedì 17 novembre 2011

Museo Etnologico Marinaro Partenopeo


il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo.
Che cosa era, di cosa si è interessato.
Cosa può fare oggi.


PRESENTAZIONE

Fondatori
Eugenio Macedonio, Giuseppina Prencipe


il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo,
poche cose da sapere, dette in breve.
Il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo Nasce in Napoli nel 1994, per la volontà dei suoi fondatori, Eugenio Macedonio, Giuseppina Prencipe, come primo e unico Istituto di conservazione per la conoscenza e lo studio del lavoro sul mare, i cui reperti abbracciano un arco di tempo pari a circa 5500 anni, (dal Neolitico ai giorni nostri), attraverso reperti e immagini che ne attestano le evoluzioni.
Trova spazio espositivo nell’isola di Procida, alla via Roma, 151b, la cui Direzione amministrativa è affidata con successo al Sig. Francesco Russo.
La Sovrintendenza del Museo, presieduta da Eugenio Macedonio. Promuove e inaugura strutture di diversa utilità, autonome  e di ausilio, come l’archivio storico dello stesso, in cui trova posto un’interessante biblioteca di appoggio.
Crea una sezione di ricerca storica.
Allestisce una sezione di ricerca storica, affidata alla prof. Dott. Maria Sirago.

Impianta un Istituto autonomo di Restauro, specifico per i reperti marinari, affidato nella conduzione alla Sig. Prencipe Giuseppina.
Struttura indispensabile al Museo stesso con propensione alle richieste esterne.

Promuove e sviluppa una sezione itinerante a scopo divulgativo, sensibile all’evolversi dei tempi e all’oblio delle memorie per le antiche marinerie.
Esso prevede lo studio dal vero di specifiche manovre nautiche in mare organizzate sul panfilo a vela in uso al Museo.
Cosa  che trova largo interesse di pubblico.

Si fa promotore di corsi sperimentali di “antichi mestieri” riportando e tramandando i valori artigiani della costruzione nautica per piccole imbarcazioni, adatte all’interesse giovanile; inoltre mantiene gli spazi di visita ai reperti, aperti e funzionanti. Oggi, anche grazie a queste possibilità, gli antichi mestieri non sono caduti in disuso.

Perché il tutto non ha funzionato.
La richiesta del Museo era  di trasferirsi da Procida a Napoli, inequivocabile come sempre, non si chiedevano fondi, né Regionali né tantomeno Comunali, si cercava soltanto un luogo di appoggio adatto ai reperti e per l’Istituto di restauro Marino, che offriva possibilità lavorative specifiche, altamente richieste.
Purtroppo tutto fu vano, non vi era volontà politica, non si comprese appieno cosa in realtà significava per il meridione una simile attiva struttura museale.
Non rimase altro che lo scioglimento della struttura, trasferendo i reperti di proprietà del museo al Comune di Procida, che sensibili e disponibili, nella figura dell’allora sindaco Dott. L. Muro, allestirono nello stesso comune una bella sala espositiva, turisticamente visitabile.

I progetti ancora recuperabili, appartenenti al Museo Etnologico Marinaro Partenopeo.
Progetto di nave Museo: per la divulgazione del pensiero marinaro con finalità di divenire strumento di dialogo tra i popoli del Mediterraneo.
Già presentato alla trasmissione Geo e Geo e gemellato con il Museo del Mare di Palermo, il cui Presidente il Dott. Pietro Maniscalco prende contatti con i cantieri per mettere in essere l’ambizioso progetto, oltre la televisione anche la stampa Partenopea s’interessa per le sue molteplici possibilità.
La falsa scia di quanto costruito, permise agli Istituti Nautici di Stato, di avvalersi delle stesse possibilità, trasformando gli stessi Istituti in disutili musei, sottraendo fondi e possibilità a strutture e progetti di più largo interesse, approfittando delle leggi a favore.

Progetto marinaio globale: È stata l’unica struttura Museo che, interessandosi alla sicurezza in mare e nei porti, propone una nuova figura professionale, in terra come responsabile dei porti turistici e in mare non più skipper autodidatti ma figure di grande professionalità e sicurezza, attraverso la formazione del marinaio globale, con istituzione di un albo professionale e obbligo d’iscrizione.
Albo adatto a disciplinare le figure che spesso nei marina sono abusive e tuttofare o stagionali, di cui l’utenza non ha strumenti per appurarne le effettive capacità.

Le reali possibilità oggi.
Esistono le memorie storiche del museo e sufficienti reperti, adatti a creare grande interesse di pubblico per un’esposizione divulgativa, rendendole nel caso permanenti, se vi è la volontà politica.
In ogni caso i fondatori, possono offrire la competenza specialistica oltre che i reperti per esposizioni di cultura marinara d’interesse morale.
Certi di essere utili a far conoscere una ambita realtà dimenticata