giovedì 17 novembre 2011

Museo Etnologico Marinaro Partenopeo


il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo.
Che cosa era, di cosa si è interessato.
Cosa può fare oggi.


PRESENTAZIONE

Fondatori
Eugenio Macedonio, Giuseppina Prencipe


il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo,
poche cose da sapere, dette in breve.
Il Museo Etnologico Marinaro Partenopeo Nasce in Napoli nel 1994, per la volontà dei suoi fondatori, Eugenio Macedonio, Giuseppina Prencipe, come primo e unico Istituto di conservazione per la conoscenza e lo studio del lavoro sul mare, i cui reperti abbracciano un arco di tempo pari a circa 5500 anni, (dal Neolitico ai giorni nostri), attraverso reperti e immagini che ne attestano le evoluzioni.
Trova spazio espositivo nell’isola di Procida, alla via Roma, 151b, la cui Direzione amministrativa è affidata con successo al Sig. Francesco Russo.
La Sovrintendenza del Museo, presieduta da Eugenio Macedonio. Promuove e inaugura strutture di diversa utilità, autonome  e di ausilio, come l’archivio storico dello stesso, in cui trova posto un’interessante biblioteca di appoggio.
Crea una sezione di ricerca storica.
Allestisce una sezione di ricerca storica, affidata alla prof. Dott. Maria Sirago.

Impianta un Istituto autonomo di Restauro, specifico per i reperti marinari, affidato nella conduzione alla Sig. Prencipe Giuseppina.
Struttura indispensabile al Museo stesso con propensione alle richieste esterne.

Promuove e sviluppa una sezione itinerante a scopo divulgativo, sensibile all’evolversi dei tempi e all’oblio delle memorie per le antiche marinerie.
Esso prevede lo studio dal vero di specifiche manovre nautiche in mare organizzate sul panfilo a vela in uso al Museo.
Cosa  che trova largo interesse di pubblico.

Si fa promotore di corsi sperimentali di “antichi mestieri” riportando e tramandando i valori artigiani della costruzione nautica per piccole imbarcazioni, adatte all’interesse giovanile; inoltre mantiene gli spazi di visita ai reperti, aperti e funzionanti. Oggi, anche grazie a queste possibilità, gli antichi mestieri non sono caduti in disuso.

Perché il tutto non ha funzionato.
La richiesta del Museo era  di trasferirsi da Procida a Napoli, inequivocabile come sempre, non si chiedevano fondi, né Regionali né tantomeno Comunali, si cercava soltanto un luogo di appoggio adatto ai reperti e per l’Istituto di restauro Marino, che offriva possibilità lavorative specifiche, altamente richieste.
Purtroppo tutto fu vano, non vi era volontà politica, non si comprese appieno cosa in realtà significava per il meridione una simile attiva struttura museale.
Non rimase altro che lo scioglimento della struttura, trasferendo i reperti di proprietà del museo al Comune di Procida, che sensibili e disponibili, nella figura dell’allora sindaco Dott. L. Muro, allestirono nello stesso comune una bella sala espositiva, turisticamente visitabile.

I progetti ancora recuperabili, appartenenti al Museo Etnologico Marinaro Partenopeo.
Progetto di nave Museo: per la divulgazione del pensiero marinaro con finalità di divenire strumento di dialogo tra i popoli del Mediterraneo.
Già presentato alla trasmissione Geo e Geo e gemellato con il Museo del Mare di Palermo, il cui Presidente il Dott. Pietro Maniscalco prende contatti con i cantieri per mettere in essere l’ambizioso progetto, oltre la televisione anche la stampa Partenopea s’interessa per le sue molteplici possibilità.
La falsa scia di quanto costruito, permise agli Istituti Nautici di Stato, di avvalersi delle stesse possibilità, trasformando gli stessi Istituti in disutili musei, sottraendo fondi e possibilità a strutture e progetti di più largo interesse, approfittando delle leggi a favore.

Progetto marinaio globale: È stata l’unica struttura Museo che, interessandosi alla sicurezza in mare e nei porti, propone una nuova figura professionale, in terra come responsabile dei porti turistici e in mare non più skipper autodidatti ma figure di grande professionalità e sicurezza, attraverso la formazione del marinaio globale, con istituzione di un albo professionale e obbligo d’iscrizione.
Albo adatto a disciplinare le figure che spesso nei marina sono abusive e tuttofare o stagionali, di cui l’utenza non ha strumenti per appurarne le effettive capacità.

Le reali possibilità oggi.
Esistono le memorie storiche del museo e sufficienti reperti, adatti a creare grande interesse di pubblico per un’esposizione divulgativa, rendendole nel caso permanenti, se vi è la volontà politica.
In ogni caso i fondatori, possono offrire la competenza specialistica oltre che i reperti per esposizioni di cultura marinara d’interesse morale.
Certi di essere utili a far conoscere una ambita realtà dimenticata






martedì 1 novembre 2011

Errata Corrige

Eugenio Macedonio,
ha dato il via a un’operazione culturale di grande spessore.
In occasione del 25° anniversario dalla scomparsa del massimo
Maestro  Ceramista del ‘900,  Peppe  Macedonio, 1906 –1986.

Esso anticipa un programma ricco di eventi.
la prima di queste realizzazioni, per sua natura è anche la più complessa e prevede di tutelare la memoria paterna, iniziando dal correggere le tante inesattezze che negli anni, si sono accumulate sulla sua immagine, modificandone la figura e il carattere.
A questo scopo, Eugenio Macedonio, a sue proprie spese, compila un documento legale di 80 pagine, adatto a correggerne le maggiori inesattezze, qui di seguito pubblicato integralmente, di libera lettura, scaricabile o in ogni caso offerto soltanto gratuitamente in formato cartaceo tascabile, su richiesta.

A tutela della figura del Maestro
Peppe Macedonio
massimo ceramista del ‘900.
Errata corrige
Documento a corso legale
per la correzione delle inesattezze riportate nel catalogo
 “ Giuseppe Macedonio scultore maiolicaro”
Ediz. Fioranna, - finito di stampare nel mese si febbraio 2011-
            





di
Eugenio Macedonio


Dedicato al Maestro Ceramista Peppe Macedonio, secondo una verità storica certa.
Ogni altro riferimento è puramente casuale.

lo scopo è offrire consapevolezze
al lettore ed alle future generazioni




































  A papà.













































































Lettera aperta.
Gentile lettore,
sarebbe un’offesa alle comuni intellighenzie, se non ci fossimo interrogati almeno una volta sul perché, improvvisamente si sia voluto riesumare la figura del Maestro Peppe Macedonio attraverso manifestazioni che coinvolgono importanti Patrocini.
L’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, di punto in bianco, spalanca le porte; si organizzano in onore del Maestro Peppe Macedonio simposi, manifestazioni, mostre importanti, addirittura coronate da un sontuoso catalogo ricco d’immagini… quando per venticinque anni la figura del maestro era stata ignorata dagli amici e dalla stessa città. Le operazioni si svolgono nell’assoluto silenzio stampa, ignorate da molti finanche da me.
Si è aperta una sontuosa scatola che racchiude un succulento “banchetto”: utile a chi?
Le manifestazioni su Macedonio assumono toni goliardici nelle interviste strampalate pubblicate su You tube, prodotte ad ok. Incontri con “vecchie amicizie”, favoriscono un antico “salotto buono” cui a casa, tutti ricorderanno gli eventi e non il reale scopo che, per altro, esiste per certo ma resta a me incomprensibile, considerata la mia estraneità ai fatti e a quanto si progettava intorno alla figura di mio padre.
Tutto è organizzato giusto per creare un grande exploit, prova ne è l’aver affidato un compendioso compito di scrittura, il così detto catalogo, a una bassa manovalanza, tanto per farlo.
La mia richiesta di spiegazioni, rivolta a una parte del Comitato Scientifico, m’informa che, a comune discapito, tale Comitato è puramente nominale.
Per correttezza morale informo almeno gli Enti Patrocinatori, certo che il Dott. Oddati, allora Assessore alla Cultura del Comune di Napoli, mi convochi. Non ho mai ricevuto risposta.
L’occasione mi è grata per ringraziarlo pubblicamente.
Mi allontano quindi dallo spirito degli eventi, ma non certo da mio padre, cercando di rimediare come posso, con tutte le mie forze, a mia unica responsabilità e spese, alle tante “storture” e incongruenze riferite da un sedicente catalogo, “pericoloso” se si osserva per quello che è: l’unico mezzo di trasporto del pensiero del massimo Ceramista del ‘900, Peppe Macedonio, proiettato verso il futuro.
Sono cosciente di condurre una battaglia contro i mulini a vento, già persa, cercando almeno di salvaguardare tre situazioni che ritengo importantissime; la figura del Maestro Peppe Macedonio e le sue opere; il lettore, fornendogli un quadro più veritiero; le future generazioni, impedendo i falsi storici.
                                                                                 Eugenio Macedonio.

Premessa

Gli editori amano affermare spesso che l’Italiano è un popolo di scrittori e chi non ne fa parte, aspira a esserlo, ne è testimonianza la mole delle opere prodotte, ogni anno. In compenso, non legge o lo fa poco e male. Ognuno è libero di scrivere, guai se così non fosse, ma si dovrebbe tener sempre presente che ci si rivolge a un lettore e che lo scritto ha un peso…
Argomento delicato, ma non per questo salvo dall’interesse di aspiranti scrittori, è il trattare della vita di personaggi di rilievo che spesso vede l’accendersi di polemiche, a suon di denunce.
Del Maestro Peppe Macedonio, mio padre, hanno scritto in molti e qualora volessi prendere in esame tutti i testi, sarebbe un’impresa ardua anche perché molti di questi non sono facilmente reperibili, mentre di altri ne ignoro finanche l’esistenza. Operazione che però ho potuto compiere per il testo che ho ricevuto all’inaugurazione della mostra di Peppe Macedonio(26 marzo 2011, Sala delle Prigioni-Castel dell’Ovo-Napoli), cui, ancora una volta, ne apprendevo dell’esistenza a cose fatte, testo che dai suoi autori è presentato come catalogo( dal modico prezzo di 50 euro!), mentre in realtà   ha la presunzione di proporre ben altro.
Di fronte al mio disappunto mi è stato fatto notare che le mie contestazioni al testo, riguarderebbero cose che gli autori hanno semplicemente trascritto da altri testi (molti di vecchia data) e che nessuno ha mai contestato.
Ahimè!
Purtroppo non è vero, le contestazioni sono state fatte da parte, alla maniera e nella natura di Peppe Macedonio e Giuseppina Garofalo, sua moglie, e cioè senza alzare polveroni, non sopportando le polemiche, facendo semplicemente notare agli autori le inesattezze e le discrepanze, affinché non si ripetessero.
Il loro referente preferenziale era il prof. Gennaro Borrelli (dal 20 aprile 1950 estimatore e frequentatore del Maestro) al quale confidavano fiducia e rispetto in virtù di quell’amicizia e accoglienza tipica di casa Macedonio che per questi motivi si è investito del ruolo di conservatore e rappresentante della memoria del Maestro.
Nel testo da me contestato è presente spesso la parola “amico” che oggi, grazie ai fatti di cronaca e vicende criminali, assume significati molteplici se non addirittura quando, in molti contesti, è finanche di cattivo gusto.
Il Maestro considerava di grande valore il rapporto umano, disdegnando le frequentazioni per puro scopo d’interesse; alla ragione economica, anteponeva sempre e in ogni caso quella affettiva, affermando il rispetto e la dignità per ogni uomo. Viveva in un mondo creativo totalmente distante dalle vicende dell’umana avidità e vana gloria e per questo, affatto amministratore di se stesso. Alla lettura del testo ho ritrovato, con grande dispiacere, in interim, le stesse annotazioni contestate dai miei genitori, in aggiunta al caos dello scritto, cui mi accingo ad analizzare quasi rigo per rigo e per iscritto, stavolta, per salvaguardare la memoria di Peppe Macedonio.
Che ai posteri non giungano solo, purtroppo, verità distorte ed ecco perché,
a solo sessantacinque anni e solo adesso, ho deciso di non lasciar più correre per non accondiscendere alle volontà di meri speculatori e contrastare chi, attraverso Peppe Macedonio, intende “appendersi” al tram dell’immortalità. Ho sempre rispettato le decisioni dei miei genitori e proprio per questo ho il dovere di compiere l’ultimo desiderio di mia madre che mi ha chiesto di tutelare mio padre, non consentendo più il ripetersi delle iniziative aberranti la memoria del Maestro.
Si comprende che mi rivolgo a chi moralmente la pensa in questo modo e non a quanti hanno inteso rendere omaggio al Maestro attraverso racconti comuni, veritieri ricordi o neutre datazioni di opere.
Le parti salienti della vita di Peppe Macedonio sono da me conservate in forma scritta e nella memoria. Questo mio scritto non è un semplice testo ma un documento che sarà consegnato a quanti in possesso del “catalogo”, tratti in inganno dall’ufficialità dell’evento Mostra.
Il documento è legale, a tutela di false affermazioni, in merito alla figura di Peppe Macedonio.
Il lettore mi perdonerà per i passaggi in cui vi è più trasporto, comprendendo che essendo la memoria storica paterna non posso che sobbalzare ogni qualvolta incontro una pura velleità.
                                                               Eugenio Macedonio
                                                                


Presentazione
In ragione alla mansione che sto per svolgere e per il rispetto nei confronti del lettore, sono chiamato a presentarmi con la mia biografia, messa alle ultime pagine. Qui di seguito, per onestà intellettuale, menziono i titoli e le prerogative che mi concedono culturalmente di svolgere il compito preposto.



Titoli e requisiti
Il primo, più importante requisito è essere il figlio primogenito del Maestro Peppe Macedonio, di conoscerne a fondo il pensiero, le opere, la vita e le tecniche di lavorazione, di aver da lui stesso ricevuto le sue personali memorie, comprensive di aneddoti, fatti, datazioni, descrizioni e significati delle opere, oltre a quant’altro di interesse generico.

Il secondo, possedere il titolo finito di “Maestro d’arte”, che da pertinenza nello specialistico settore.  (Documentazione presso l’I.S.A. F. Palizzi, Piazzetta Salazar).

Il terzo, aver conseguito l’Abilitazione di Stato per l’insegnamento della Storia dell’Arte. Documento che mi legittima a narrare, valutare, scrivere, analizzare i complessi “perché”, legati alla realizzazione di un’opera d’arte, dalle origini ai giorni nostri.   (documentazione archivi del Provveditorato degli Studi di Napoli,  via forno vecchio; presso la sez.  esaminatrice  del Provveditorato di Salerno).

Il quarto, aver ricevuto, ad persona, il Decreto Legge  di  equiparazione al “livello di Laurea”. (Documentazione personale o presso il Provv. agli Studi di Napoli).

Il quinto, aver svolto il compito di Docente di cattedra, nel ruolo per le tecniche pubblicitarie, presso ’I. S. A. - U. Boccioni, Mostra d’Oltremare.
Fondatore  ideologico dello stesso, insieme con quanti contribuirono, volontariamente, al perfetto funzionamento dell’Istituto e della sezione Grafica pubblicitaria, prima della apertura ufficiale, cui ricordo al lettore qualche nome in ordine sparso: Giuseppe Antonello Leone, Luigi Castellano (Luca),  Arch. Franco Lista … (documentazione archivio U. Boccioni).

Il sesto, aver contribuito alla crescita sociale della Nazione attraverso opere di Cultura:   Fondatore del primo “Museo Etnologico Marinaro Partenopeo”, nato in Campania, con sede in Procida, fondato insieme alla signora Giuseppina Prencipe. (Pubblicazione Internet, Pagina della Provincia di Napoli).




A tutela della figura di
Peppe Macedonio
massimo ceramista del ‘900,
del lettore e delle future generazioni.
Errata corrige




Analisi e correzione del volume intitolato:
“Giuseppe Macedonio Scultore Maiolicaro”
 Edizioni Fioranna. - Finito di stampare nel mese di febbraio 2011-.

Per una maggiore velocità di lettura, le affermazioni del testo cui si fa riferimento, sono riportate per intero e in colore blu. 

Prima di copertina e prima inesattezza.
“Giuseppe Macedonio Scultore Maiolicaro”
Le parole “scultore maiolicaro” furono coniate dal prof. G Borrelli, con l’intento, forse, di valorizzare il lavoro svolto dal Maestro, in un impeto d’amicizia e a fin di bene. Peppe Macedonio non ha mai amato questi attributi; sempre fiducioso del prossimo, con certezza, aveva confidando nel fatto che, alla successiva pubblicazione, sarebbero stati cambiati in “Peppe Macedonio ceramista”. Speranza vana, giacché “scultore maiolicaro”, giungendo fino ad oggi, è divenuto un marchio indelebile di cattivo gusto.

Prima di copertina.
Si riporta la parola:
Giuseppe,
Spesso, non di rado, il ricercatore filologico poco accorto, non tiene conto di antichi errori, trascrivendo senza considerare che quanto stampato in precedenza possa non essere “oro colato”, ritenendo valida un’affermazione, esentandosi dalla responsabilità per il solo fatto di averne citato le fonti.
La delicatezza di questo compito risiede proprio nel cercare la verità e questo dipende dall’onestà intellettuale.
Se, ad esempio, trasferiamo in un trattato geografico un sistema di valutazione tolemaico, non significa che esso sia verità assoluta o pretendere di spacciarla come tale solo perché se né è citata la fonte.  (l'astronomo alessandrino Tolomeo, scrisse su di una sua teoria ufficialmente accettata: il “Sistema Tolemaico”. Superato nel XVI in favore del sistema Copernicano.)
Gli storici, di questo, ne sono consapevoli e continuamente si trovano di fronte al pericolo di non rispettare la realtà storica.
Nel caso del Maestro, trattandosi di un artista conosciuto al secolo come “Peppe”, scritto perfino sulla lapide (Nuovo cimitero del pianto Napoli) per sua volontà, perché così voleva essere chiamato e ricordato, in rispetto di questo e della ricerca è evidente che la titolazione è manchevole della traccia storica, nel nome stesso.
Sarebbe stato per fare un paragone, come chiamare il massimo artista Totò, Antonio de Curtis, tutt’altra cosa.

Prima di copertina,
Si riporta integralmente la parola:
Scultore,
Peppe Macedonio non fu mai scultore.
L’arte della scultura appartiene a scuola diversa.
Il sostantivo “scultore”, oltre a non avere attinenza alcuna, pone di fronte a due interrogativi irrispettosi in entrambi i casi.  
Nel primo caso si ritiene il lettore tanto ignorante da non conoscere la differenza tra un ceramista e uno scultore.
Nel secondo si ritiene il Maestro tanto poco conosciuto da aver bisogno di precisare la sua professione con una definizione aggiuntiva.

Prima di copertina,
Si riporta integralmente la parola:
Maiolicaro,
L’aggettivo “Maiolicaro”, talvolta si discosta dal significato neutro della stessa parola, assumendo secondo le località, valenze diverse.
Nel “gergo” degli artigiani ceramisti Campani, ha come molti aggettivi due significati simili ma diversi nell’indirizzo.
Il primo indica (anche con una vena dispregiativa), il produttore, oggi quasi del tutto scomparsi, di maioliche economiche di serie, adatte a una clientela molto popolare. Oppure, nella giusta formulazione senz’altro più nobile, indica il lavoro di un maestro maiolicaro, appunto, che dipinge le maioliche artistiche.
Tale maestro, però nella tradizione, si limita solo a decorare gli oggetti d’uso, piatti, brocche ecc… approntati da altri maestri: tornianti, mattonellari, ecc., (Tradizione vietrese di produzioni per il mercato estero) .
Peppe Macedonio, escludendo i tazzoni prodotti nel ’45 per la Red Cross, non ha mai prodotto opere in serie né, tantomeno, ha decorato maioliche fatte da altre mani o prodotti destinati alle bancarelle.
Ragion per cui, in ogni caso, non può essere considerato maiolicaro, natura e maestria di tutt’altra specie.
La stessa lavorazione della ceramica è ben diversa dalla maiolica, dall’etimologia della parola stessa.

La rilegatura.
Conclusa l’analisi, aprendo il volume, si nota una raffazzonata impaginazione, per le pagine dei capotesta totalmente fuori posto: pagina 30 al 61; 86 al131; 190 al 248., confondendo la consultazione.
Le opere
Anche nelle attribuzioni delle opere, si riscontrano errori.

Piano di tavolo. Pag. 130, foto in basso.
Descrizione: piano per tavolo, ceramica dipinta.
Formato: otto mattonelle di cm 25x25 circa, disposte per due file orizzontali per una misura totale cm100x50, a rappresentare “la festa di Antignano”.
Opera realizzata dal figlio Eugenio all’età di sette anni ed attribuita al Maestro Peppe Macedonio.
Per entrambe queste errate attribuzioni, c’è da specificare che mancando la memoria storica da parte di quanti hanno fintamente seguito la realizzazione di questo catalogo e non possedendo i riferimenti di specifici documenti descrittivi, l’attribuzione delle opere diventa complessa, anche uno sguardo inesperto poi, noterebbe la differenza.
Che si vuole sperare.

Scheletro. Pag. 226, foto n°205.
Descrizione: figura tutto tondo di cm 3 h circa.
rappresenta la miniatura di uno scheletro, dal volto umano.
Opera realizzata dal figlio Eugenio all’età di otto anni, attribuita al Maestro Peppe Macedonio.
Stesso errore precedente.
Si manca di memoria storica.
Da Pag. 7 a pag.13.
Periodo: 2011
Si saltano le prefazioni e le lettere, contributi di natura diversa, non attinenti alle opere, al pensiero e più che meno alla vita di Peppe Macedonio.

1.Gli anni della formazione tra Napoli e Vietri.

Pag. 17; dal rigo 1  al rigo 7.
Periodo: 1906.
Si riporta integralmente il pensiero.
Giuseppe Macedonio nacque il 25 settembre 1906 a Napoli dall’Avvocato Salvatore e da Eugenia Porzio. Sin dall’infanzia mostrò una particolare propensione per le arti pittoriche e scultoree, ma tale indole si scontrò con la volontà del padre che puntava a farne un medico.
La frase poi che anticipa la futura professione del maestro …si scontrò con la volontà del padre che puntava a farne un medico. …è tutto un poema… Da tempo immemorabile, la Moglie del Maestro Pina Garofalo, tentò di far correggere il grossolano errore, anch’esso prodotto per un lapsus del Prof. G. Borrelli e mai cancellato dai ripetuti “copia-incolla”.
In realtà il padre di Peppe Macedonio desiderava che il figlio Giuseppe, divenisse un bravo avvocato non un medico, per proseguire il suo stesso percorso professionale. 
(Chiarimento dovuto anche per la gioia di mia sorella Lucia, che si è sempre lamentata del ripetersi dell’errore a ogni nuova pubblicazione).
Dalle personali memorie del Maestro, uniche che qui fanno fede, non emerge che il Maestro Peppe Macedonio avesse velleità scultorie ma, si badi, solo pittoriche.
Infatti, non ha mai tentato in tutta la sua vita di scolpire nulla.
Questa attribuzione, come per le altre va di grazia ad una delle fonti certe.

Pag. 17; dal rigo 21 a fine paragrafo.
Periodo: 1923-‘24.
Si riporta il pensiero.
Nel 1923, dopo la perdita del padre a soli 17 anni iniziò l’apprendimento presso la rinomata Fonderia Chiurazzi…..
È vero che Macedonio all’età di 17 anni rimase orfano,  tuttavia una tragedia di questo calibro, non la si può licenziare con due parole.
Se l’intento dell’autore è anche quello di far trasparire il lato umano dell’artista…, (parole degli stessi amanuensi in una diversa epistola in cui richiedevo spiegazioni), esso fu un avvenimento talmente devastante da segnare il percorso della sua intera esistenza.
Sembra da quanto riportato, che dopo i funerali, indifferente, pensò solo a se stesso e al proprio apprendimento, felice e contento.
Ecco i fatti storici secondo Macedonio, siamo nel 1924, ed erano trascorsi appena sei anni dalla fine del conflitto mondiale del ’14-‘18, quando giunse la disgrazia come un fulmine a ciel sereno.
Le malattie polmonari, erano molto diffuse, l’Avvocato si ammalò di polmonite, contagiando anche due dei tre figli che nel giro di tre mesi (testuali parole del Maestro), finirono nelle mani di Dio.
La famiglia aveva già subito, in precedenza, la morte infausta della mamma Eugenia, cui porto il nome, causa un aneurisma sopraggiunto dopo uno sforzo.
Quella del padre fu l’ultima delle tragedie irreparabili, dove egli si ritrovò solo, in una casa troppo grande. La conseguenza più immediata fu il non avere il supporto di altri parenti.
Fu aiutato dalla famiglia della porta accanto, i Garofalo, (gli stessi che nel ’19, accudirono alla madre, poi morta in seguito a un aneurisma), e che fecero l’impossibile per salvare il genitore, il fratello e la sorella aiutando in appresso il giovane Macedonio, rimasto solo, come possibile, con tanto amore.
C’è da dire che in casa Garofalo, appena due anni prima (il 6 gennaio del ’21) era nata Pina, dopo un parto che vide morta la madre.
Nessun’ancora sa che da grande diverrà la moglie di Peppe e avrà tre bellissimi figli.
Si può ben immaginare come la vita potesse mettere a dura prova chi, soprattutto in tempi difficili e a soli diciassette anni, è colpito da una simile catastrofe!
La famiglia Giliberti, genitori del suo amico Domenico, (Mimì), poi Maresciallo dei VV.UU. di Napoli sez. Museo, lo aiutò a superare la crisi esistenziale, trovandogli un lavoro che gli desse modo di sostenersi.
Al diavolo gli studi liceali, al diavolo i programmi fatti per la vita, lo studio di avvocato del padre… era saltato tutto, tutto finito, tranne che per l’immenso vuoto che portava dentro.
Proprio in quel periodo, un’antica fonderia, la Chiurazzi, ampliava e ammodernava la sua struttura, annoverando una “marmeria” e una fabbrica di porcellane, con conseguente necessità di assumere personale.
Fu assunto; niente romanze tra maestri e allievi e altre sciocchezze del genere, come riportato da un’altra fonte ignota: da un lato un padrone, dall’altro un giovane salariato.
In quel periodo (siamo ancora nel ’24) Peppe aveva solo 17 anni, dovette maturare in fretta nonostante fosse alle prime armi e non avvezzo al lavoro.
Con una formazione di studi classici quasi terminata, era ovvio che nello svolgere il lavoro, il suo interesse correva verso ciò che non ancora conosceva.
Rimase alla Ditta Chiurazzi, dal 1923 al ’24, cominciando a maturare un’idea che avrebbe sviluppato solo in seguito:
“Usare la creta e il colore insieme”...
In quel periodo però, la pittura era il suo unico sogno, la sua unica musa.
Vomerese di nascita e di ottima famiglia, il lavoro non gli impedì di frequentare circoli d’artisti rinomati, di quel quartiere, poiché il giovane salariato, era non solo amante della pittura ma pittore lui stesso.
Così, soltanto un anno dopo, appena l’orrore della tragedia cominciò ad attenuarsi, lasciò il lavoro alla Chiurazzi, per seguire il suo sogno, la sua aspirazione, dipingere.
Tanto amava quest’arte che nel cercare un connubio tra il praticare la pittura e il suo sostentamento, trovò una possibilità nelle decorazioni murali, a quell’epoca molto di moda.
La tragedia, però, aveva segnato profondamente lo “spirito” di Macedonio, già di per sé “sognatore”, acuendo fortemente la sua visione della vita, divenendo più distaccata e strafottente o come diceva: “Se pioveva inchiostro, bastava appena scostarsi”.
Questa fu la filosofia che lo avrebbe accompagnato per l’intera vita;
Era un osservatore neutro di quanto gli accadeva intorno, senza farsi coinvolgere emotivamente, traendo dagli eventi il concetto generale. 
Custode di un’energia tanto forte, in un fisico asciutto, da divenire quasi tangibile, che si manifestava attraverso la sua figura e in ogni suo gesto.
I suoi modi garbati e colti, fin dalla più tenera età, riuscivano ad aprire porte precluse ad altri.
E fu così, che con la sua proverbiale calma serafica, unita a una matura professionalità pittorica, un giorno, presentandosi da solo a un maestro decoratore per un colloquio di lavoro, (per raggiungere il suo sogno di sempre: dipingere), fornì prova della sua maestria, facendosi assumesse come apprendista di “bottega”.
Il Maestro decoratore era di “grido”, avendo tra l’altro decorato molti anni prima, finanche il famoso Salone Margherita, senza disdegnare i soffitti e pareti della Napoli bene.
Da una più approfondita ricerca nella memoria di Macedonio, lo inquadra tra i massimi esponenti della decorazione muraria dei primi del ‘900: Maestro Decoratore Arnaldo de Lisio, ultimo discendente di una stirpe di decoratori e pittori d’arte.
Che poi Peppe Macedonio dipingesse art déco o altro, come si scrive, questo lo lega al periodo!
Siamo giunti nel 1926, la sua tenacia e l’amore per la pittura lo condussero a imparare a dipingere figure di fanciulle in fiore, paesaggi, balaustre rinascimentali, su superfici o soffitti, piani e a cupola, su pareti ricurve, presenti nei molti “padiglioni di caccia”. Imparò così a modificare le prospettive delle figure per una migliore visione dal basso; cosa tutt’altro che semplice ma non l’unica cosa.

Pag. 17; dal rigo 21 a fine paragrafo.
Periodo: 1926.
Si riporta il pensiero.
Contemporaneamente, all’insaputa del padre, Macedonio riuscì ad ottenere anche il diploma di “Maestro d’Arte”, sezione pittura, presso il Reale Istituto d’Arte Industriale di Napoli.
Un’altra dritta della fonte certa? ’stavolta chi incolpiamo? Dove ha trovato tali insensate sciocchezze, impossibili e contraddittorie, chiunque sa che nel 1926 Macedonio aveva già perso il padre con il resto della famiglia.
Il periodo e il modo di come avvenne l’evento sono una prsa in giro per il lettore.
Peppe Macedonio non pensava neanche a farlo, prima che eventi tragici lo spingessero a compiere altre scelte. Amava gli studi classici! Inoltre, non avrebbe potuto iscriversi di nascosto, poiché minore.
Ecco spiegati i fatti reali, in maniera compendiosa.
Nel periodo precedente alla tragedia, sappiamo che egli studiava presso il Reale Liceo Ginnasio Jacopo Sannazzaro, al Vomero.
Dopo il tragico evento, gli impegni di lavoro non gli permisero di proseguire questi studi.
Un giorno, proprio nel periodo in cui dipingeva con il de Lisio, il caso volle che transitando per piazzetta Salazar, sede del Regio Istituto d’Arte Industriale di Napoli, notasse che era il tempo delle iscrizioni e pensò di sostenere gli esami di licenza da privatista, per ottenere il titolo finito di Maestro d’Arte in sez. pittura.
A quel tempo, la maggiore età si raggiungeva a 21 anni e non a 18 come adesso e comunque, anche a quei tempi, per l’iscrizione di un minore si richiedeva i consenso del “padre o di chi ne facesse le veci”.
Peppe Macedonio poté iscriversi a soli venti avendo presentato come stato di famiglia, quello di orfano autosufficiente e capofamiglia; gli studi Liceali e l’amore per la pittura gli permisero di ottenere il superamento degli esami di licenza, brillantemente.  
Fin dalle prime pagine si tenta di rimandare l’immagine di un personaggio che non rispecchia la realtà, attribuendogli pensieri e addirittura azioni che non gli appartennero.

Pag. 17; dal rigo 42 a fine pagina.
Periodo: 1924.
Si riporta integralmente il pensiero.
Intanto l’artista, intorno al 1924, cominciò a frequentare anche l’ambiente futurista napoletano, stringendo amicizia con i due principali protagonisti del movimento, il pittore circunvisionista e architetto Carlo Cocchia… omissis…e il medico pittore Emilio Buccafusca...
Da com’è scritto, si evince che Macedonio si sia avvicinato al mondo del futurismo napoletano con una coscienza politica, mentre in realtà egli si è sempre considerato uno spirito libero.
Nel ’24 aveva solo 18 anni, (essendo nato a settembre, ma nel testo la sua età sembra piuttosto ballerina!), la sua cultura, il padre Avvocato, permisero al giovane maturato troppo in fretta, di avere idee chiare,  non amando alcun tipo d’imposizione.
Considerandosi uomo di pensiero, non marionetta.
D’altro canto siamo nel pieno del regime fascista e anche la pittura subisce quelle trasformazioni inevitabili!
Egli d’altronde non frequentava i pittori vomeresi per ragioni legate alla politica, ma con spirito d’osservatore e per una logica non presa in considerazione nei fogli malmessi: l’amore per l’arte.
Ragione che non gli faceva scartare nessuno, anche se per ragioni legate al lavoro, allora di decoratore, preferiva i pittori tradizionali, di libero pensiero.
Ho ancora dei vaghi ricordi, avendoli incontrati nella prima infanzia; davvero figure d’artisti d’altri tempi, accaniti fumatori, espressivi come le loro opere o come Macedonio.
Una curiosità, il maestro fumava un tipo di sigarette molto forti e senza filtri, le “Sport”.
Ricordo ancora benissimo le loro creazioni: sculture, disegni, gouache, olii; opere di artisti i cui nomi, tanti, sono ricordati nelle pagine d’oro dell’arte, con l’A maiuscola, non in quelle momentanee di regime.
Tuttavia i fini narratori delle pagine di questo testo, continuano a inneggiare il Buccafusca e il Cocchia, nient’altro che fascistoni votati al partito che, bravissime persone, praticando già professioni ben retribuite, l’uno medico e l’altro architetto, usavano la pittura come mezzo politico di emancipazione sociale.
È facile quando, avendo alle spalle benestanti famiglie, non ci si debba preoccupare della propria sopravvivenza!
Questi personaggi li ritroveremo di tanto in tanto, fin dopo la caduta del fascismo, il Cocchia per la ricostruzione e il Buccafusca, medico.
Molti anni dopo, “l’amico” di Macedonio, (così è scritto, da Pag.71 rigo 41 a pag. 72 rigo 7), e Carlo Cocchia, mi scuso poiché i fini dicitori, non sanno che non si appella mai una persona in nessuno dei due modi espressi, essi pensano forse di scrivere su dei loro pari.
Entrambi i motivi sono eticamente irriverenti.
Architetto di regime, C. Cocchia, non si ricordò di Peppe Macedonio, quando nel 1938 affidò le decorazioni della facciata dell’Acquario Tropicale (Mostra d’Oltremare) a un gruppo di artisti, ideologicamente vicini a un concetto più di parte che sappiamo richiamarsi a dottrine secondo le quali l'individuo non ha rilievo rispetto alla massa.
Lontano dalla filosofia di Macedonio, dove è l’individuo che compone la massa, è il singolo che la accresce culturalmente.
Mi piace oggi pensare, ripassando i ricordi lasciatomi dal Maestro che una specie di fio divino, giunse a colpire l’operato, senza creare danni. Non furono fulmini ma ritengo fosse una reazione ugualmente esagerata, poiché circa due mesi dopo aver terminato l’opera, scoppierà la seconda guerra mondiale.

Pag. 18  a 21;
Periodo: 1923 1934.
Racconti non inerenti dispersivi e troppo nebulosi.
Narrazioni superflue, stancanti, inutili per i fini della stesura, mentre non si sostiene che il Maestro, nel tempo libero, studiava alla Biblioteca Nazionale, per proprio conto e come meglio poteva.  
Sono elencati invece miscugli di nomi, i danneggiati dai regimi europei, germanico, italico e russo, ricchi eredi o appartenenti a strati sociali diversi, rifugiatosi in Italia per scampare a quanto accadeva nei loro paesi.
Non erano gli arricchiti delle nuove possibilità economiche del fascio, essi sarebbero giunti più avanti, anche se comunque, riuscivano nei propri scopi.
Un gruppo compatto di stranieri, di diversa nazionalità e religione, insieme molto eterogeneo al seguito di un certo Melamerson, tedesco, intenzionato a rimanere in Italia, così descritto nel testo: Da raffinato mecenate e astuto industriale… fu una persona che vide nella ceramica un motivo di guadagno e investì parte dei suoi averi in una fabbrica a Vietri, fatta costruire ex novo, secondo personali direttive: Questo lungo racconto non conduce a nulla, perché costoro potevano offrire a Macedonio solo il far parte di una corte privata di stravaganti, quasi blindata, (oggi si chiamerebbe “salotto buono”).
Resta chiarificatore quanto scritto a pag.21, dal rigo 15 al rigo 18, che se pur in forma modesta e stitica, accenna a una spiegazione.
L’artista rimase in contatto con l’ambiente ceramico vietrese fino al 1934, ma in modo saltuario, poiché impegnato in contemporanea con le Ditte Stella, Mollica e Freda.
Quest’affermazione rende la precedente Citazione inutile; addirittura in antitesi con essa.
In quello stesso periodo, siamo intorno al 1930, Peppe Macedonio aveva lasciato le decorazioni dei soffitti, preferendo la ceramica, materia in cui l’uomo poteva intervenire sulle forme e sul colore.
Era quindi in Napoli e lavorava contemporaneamente con Mollica, Freda e Aldo Stella; il quale, all’epoca, era a capo della Comunità Provinciale per la Ceramica e affini della Federazione Fascista degli Artigiani d’Italia, una specie di monumento ambulante, creato dal regime e come tanti altri, poi sgonfiati e dimenticati.
Peppe, con tutta la buona volontà, non poteva se non solo saltuariamente, intrattenersi con il “gruppo di Vietri” legato al Melamerson, e solo come amico del gruppo.
Considerando la giovane età del Maestro e le possibilità lusingate dalle giovani signore d’oltralpe, mi sembra logico pensare quale potesse essere il vero motivo della frequentazione: leggere poesie.
Chissà perché, quando si diventa famosi, si amputa il lato più dolce!
Quanto scritto nel testo, da qualsiasi punto si legga e si rilegga, non è neutrale, esso cerca d’insinuare, sottilmente, possibili legami ideologici ponendo l’accento sull’ipotesi che il Maestro abbia preso e appreso molto proprio da Vietri.
Concetto che verrà ripetuto spesso da qui in avanti, fino alla nausea.
Macedonio volava tanto in alto da essere irraggiungibile, per chiunque.
Egli aveva dei saldi e irremovibili principi sul lavoro, offerti dalla sua filosofia: osservatore distratto del mondo, sempre “preso” sui concetti da esprimere nelle sue creazioni.
È ovvio e naturale che sia stato costretto a confrontarsi con un regime in cui, per lavorare, bisognava gioco forza essere iscritto al P.N.F., (aggiungo), o in alternativa morire di fame, non a giustificazione ma per correttezza di concetto.
Egli, come tanti, non poté sottrarsi a questa regola, causa anche delle forti pressioni di Aldo Stella e dei consigli degli amici pittori.
Diverso per come si vuol far intendere, quasi a volerne esaltare la ideologia mortificandone lo spirito e il pensiero, così come per la descrizione ancor più fuorviante, pag 25 rigo 30 al 32 di cui si riporta testualmente: Ai due artigiani fu assegnato il primo premio direttamente dal Duce... come fosse cosa sconveniente o esaltante! Fu un avvenimento importante, avvalorato dal capo di Governo che prendendone atto li insignì personalmente del primo premio di un concorso Nazionale.
Non a caso Macedonio è considerato il massimo ceramista del ‘900.
Il senso, per com’è scritto, è nebuloso, indugia creando ombre e così continua.
Qualche pagina più in là, pag. 27; dal rigo 46 al rigo 50, si legge una versione ideologicamente diversa: “Dal 1942 Macedonio trovò occupazione come disegnatore presso l’industria bellica Alfa Romeo, per poi esserne allontanato per la mancata aderenza alle ideologie fasciste”.
Questo accadde nello stesso periodo in cui vinse il premio Nazionale. Da un lato inneggiato, dall’altro annientato…

Pag. 21; rigo 3.
Periodo: 1906-‘86.
Si riporta il pensiero.
Lo scultore…
Non mi sembra che Peppe Macedonio fosse uno scultore, piuttosto un ceramista che è tutt’altro.
Si nota sempre poca accortezza nello scrivere.
Un esempio su come siano state scritte queste pagine potrebbe paragonarsi a ciò che accade in quelle osterie che, non sapendo ben cucinare e volendo far passare il loro cibo per genuino e naturale, si titolano: “Cucina Casereccia”; non certo di casa e non certo di raffinata fattura bensì: una chiavica!

2. i Due Fornaciari.

Alla pagina 22 , inizia il capitolo dedicato ai Due Fornaciari.
La bella pagina di “capotesta”, in cui è ritratto un bassorilievo di Macedonio (una pianta con stelo e foglie) è per errore o orrore, finita a pagina trenta: “lettura di tipo araba”…?

Pag. 22; dal rigo 1 al rigo15.
Periodo: 1938 -1946.
Si riporta integralmente il pensiero.
Giuseppe Macedonio fondò con lo scultore Romolo Vetere(1912-’88) la società “I due fornaciari”, in via case puntellate 91 al Vomero.
La ditta già dal nome tendeva a porre l’accento sull’importanza dell’aspetto tecnico-artigianale, infatti i due artisti si posero come obbiettivo la produzione di manufatti ceramici di uso quotidiano e la rivalutazione dell’artigianato tradizionale contro le finalità di profilo e di consumo della produzione artistica di massa.
Come afferma Gennaro Borrelli, “era il sogno ottocentesco divenuto realtà: la produzione di oggetti d’arte per una società meno abbiente e per un quotidiano più umano”.
L’espressione del concetto è abortiva, manchevole.
Non si apostrofa un professore come persona di famiglia, è eticamente scorretto e manchevole scrivere …come afferma Gennaro Borrelli…
La cultura di Peppe Macedonio e le motivazioni a essa legate sono svilite, con un veloce e breve commiato, dall’affermazione: “Il sogno ottocentesco divenuto realtà…”, pronunciato dal professor G. Borrelli, non è il pensiero di Macedonio e non ne descrive i termini.
La mancanza di nozioni specifiche, degli scriventi, vieta di far comprendere che Macedonio e Vetere intendessero rifarsi alla gestalt, movimento culturale mitteleuropeo, contrapposto alla Bauhaus.
In maniera sintetica, la filosofia di questo movimento, almeno per la fabbricazione industriale e artigianale di serie, per manufatti d’uso, proponeva la produzione di oggetti di classe, poiché il concepirne di bellissimi e funzionali o brutti e inutili, s’impiegava la stessa fatica.
Nacquero in Germania opere eccelse, d’importanti nomi del design adatti a Reali, e per le ragioni tecnologiche e industriali ormai raggiunte, potevano essere prodotti in grande o grandissima serie.
Ecco spiegato in poche parole il “sogno ottocentesco avverato” del Prof. G. Borrelli, inteso come produzione di oggetti d’uso di rara bellezza è di largo consumo, il cui utilizzo potesse essere alla portata tutti.
Per com’è scritto invece, sembra voglia essere una “operazione bancarella”, in grande stile.
In un sol colpo, gli autori hanno svalutato il pensiero di Macedonio, di Vetere e del Borrelli, omettendo i principi storici e culturali della rivoluzione industriale.
Non è poco.

Pag. 22; dal rigo 16 al rigo20.
Periodo: 1938-‘46 in maniera saltuaria Pinto e Rovinolo.
Si riporta integralmente il pensiero.
La sezione tecnica della piccola Fabbrica usufruiva della cooperazione e consulenza dell’esperto ceramista napoletano, Salvatore Pinto e di suo figlio Luigi, e del torniante Rovinolo.
Dai personali ricordi del Maestro in mio possesso, posso affermare che i nomi sono stati invertiti: quello del padre con quello del figlio.
Poca roba in confronto al resto.
Il padre si chiamava Luigi, mentre il figlio era Salvatore.
Altra affermazione errata: “Cooperazione e consulenza”, termini che indicano una condizione di lavoro precario, mentre nelle loro specifiche maestrie, i due Pinto, padre e figlio, sovrintendevano il lato chimico dei colori e smalti, e la cottura della produzione. Mentre Rovinolo realizzava al tornio i lavori richiesti! Altro che consulenza.
Essi si possono con orgoglio annoverare tra le maestranze della Ditta, responsabili a tempo pieno, non consulenti e cooperanti.
Un altro errore etico che infanga la memoria dei Pinto e di Rovinolo.
Si ricorda che i “Due Fornaciari”, vincitori di un ambitissimo premio Nazionale, avevano una produzione di alto artigianato, non una botteguccia a conduzione familiare!
I compiti da eseguire nella Ditta “I Due Fornaciari” erano specifici, svolti da valenti maestri artigiani, i migliori possibili sul mercato.
Ricerca superficiale e poco coerente, come letta e riportata senza controllo, mentre l’esposizione usa termini che ne modifica il valore etico, generando ombre.
Pag. 22 a 24
Periodo: accorpamento degli anni dal’38 al ’45.
L’esposizione è indirizzata in maniera enfatizzante verso personaggi limitrofi al Maestro Macedonio, superflui in questa ricerca.
Sono riportate storie private di altri che non apportano valore alla sua vita e che non raccontano di fatti a lui legati.
Se chi scrive, nell’immaginario intendeva proporre una monografia, avrebbe dovuto badare a non sminuirne il pensiero e la figura del Maestro, diluendola in storie di altre vite. Vergogna!
Una curiosità scaturita casualmente dai ricordi del Maestro: Romolo Vetere, nel ’45, accompagnò all’altare il Maestro come “Padrino d’anello”, per le nozze con Giuseppina Garofalo.
Fatto non riportato in nessun punto del libro.

Pag. 25; dal rigo 1 al rigo5.
Periodo: 1940.
Si riporta integralmente il pensiero.
Fu proprio su tale periodo che i due fornaciari comparvero nel 1940 con il vaso dei pettegolezzi, decorato con elementi plastici a bassissimo rilievo, alto cm 30, esposto alla mostra dell’artigianato italiano in Svizzera.
È un modo di scrivere questo?  
Si evince che i due, in quel fortunato periodo, divennero giocolieri e illusionisti e come il mago Copperfield dei giorni nostri, comparvero d’improvviso nell’anno 1940 con il vaso dei pettegolezzi tra le mani. Incomprensibile, la narrativa è insufficiente non si dice se l’apparizione sia avvenuta dinanzi ad un pubblico oppure no!
Nessuno che non sia memoria storica, conosce a fondo la vita del Maestro, questa mancanza, purtroppo, ne svilisce e ne mortifica la parte “ridanciana” che, invece, è sempre stata una caratteristica forte.
Superata l’infanzia difficile, egli si ammanta di allegria e amore, espressa nel quotidiano.
Questa forma mentis, lo indusse a esporre a un’importante mostra in Svizzera (la Schwaiserhandverksmesse), complice l’intero studio, un vaso che, nella cottura di gran fuoco, aveva subito un trauma termico.
Il vaso, avendo superato la temperatura di cottura, aveva assunto una colorazione mossa e sfocata diversa da quella prevista.
Evento che nel laboratorio suscitò pareri discordanti in merito alla sua bellezza, in cui pensieri contrastanti crearono gruppi a sostegno delle più svariate ipotesi; ecco spiegato l’origine del nome “Vaso dei pettegolezzi”, suggerito proprio dalla circostanza.  
Nel loro immaginario, l’intero laboratorio era convinto che alla esposizione, al solo vederlo, avrebbe generato correnti di pensiero contrastanti. Divertendosi un mondo a immaginare i commenti e le reazioni degli Svizzeri che lo osservavano; lo stesso Vetere amava ricordare spesso questo episodio!

Pag. 25; dal rigo 25 al rigo29
Periodo: 1942.
Si riporta integralmente il pensiero.
I “Due fornaciari” parteciparono al primo e terzo tema, quindi con un pannello decorativo a soggetto di carattere Nazionale e un centro da tavola figurato. Ai due artigiani fu assegnato il primo premio direttamente dal Duce… omissis, …Pannello fronte interno eseguito in collaborazione con la manifattura ceramica Salernitana… segue la descrizione.
Fu un importante episodio avvenuto, nel ’42, accennato in precedenza, in cui i “Due Fornaciari” vinsero il primo premio del più famoso concorso Nazionale della ceramica (4° concorso Nazionale, Faenza dal 19 di settembre al 4 ottobre’42).  La prova, fu indetta dallo stesso fondatore del Museo delle Ceramiche di Faenza, Gaetano Ballerini.
La giuria ritenne a ragione di assegnare il primo premio ai Due Fornaciari, ritrovando nelle opere quei valori richiesti dal bando.
L’assegnazione del premio avvenne in pompa magna, nel tardo pomeriggio, in una grande piazza addobbata per l’occasione, con striscioni e petali di fiori.
Dopo le perfette rappresentazioni ginniche dei piccoli Italiani, i discorsi del podestà di Faenza, dei Notabili, del fondatore del Museo, finalmente, sotto la vibrante musica della banda, il premio fu consegnato ai due “poverini”, in attesa dalla mattina, nientemeno che, dalle mani dello stesso Duce.
Macedonio e Vetere avevano raggiunto la vetta più alta possibile.
Erano i ceramisti più bravi di tutta la Nazione e per questa ragione e per l’importanza, ebbero l’onore di ricevere il premio dallo stesso capo di governo.
Macedonio e Vetere non erano mossi dalla “fiamma della politica”, ma dalla volontà di volare più in alto di tutti.

Pag. 26; dal rigo 14 al rigo24
Periodo: 1942.
Si riporta integralmente il pensiero.
Il centro da tavola con segnaposti, richiesto dal terzo tema, era costituito da una ceramica centrale raffigurante una casetta posta sulla sommità di una collina, ai cui piedi regnava un’atmosfera bucolica con coppie di innamorati e suonatori. Come segnaposto vi erano piccole plastiche con amanti, alberelli e animali. L’opera riproduceva lo stile vietrese delle piccole plastiche de 1938 e le suggestioni della tradizionale maiolica popolare barocca dei trionfi da tavola e delle saliere.
Descrizione restrittiva e poco comprensibile.
Il sottoscritto, avendo studiato Storia dell’Arte con Umberto Schioppa, ne condivide il pensiero: “Le enunciazioni delle opere d’arte devono essere ben descritte e comprensibili anche senza l’ausilio delle immagini”.
La caratteristica più importante dell’opera, strano a dirsi, è proprio il tipo di tetto “mediterraneo” della casetta bianca posta sulla sommità cui non si fa alcun riferimento, in realtà è una casetta quadrata, dal tetto a cupola abbassata, simili ai “dammusi panteschi”.
In senso generico sono abitazioni costiere mediterranee meridionali. È un’immagine paesaggistica molto cara al Maestro e che ritroviamo spesso, finanche nella linea dei modelli prodotti per conto della “Contessa Caracciolo” nell’isola di Capri.
Questa però è un’altra storia.
Si parla spesso di Vietri e non di Capri, argomento manchevole.
Il tema degli amanti, poi, era ricorrente e personale del Maestro, presente in molte opere realizzate durante tutto il periodo della sua attività.
Il paesaggio a cono, ispirato a un’acropoli nostrana, è solo un’immagine di fantasia a sostegno del tema: “centro tavola”.
Paragonare le opere del Maestro a creazioni barocche è del tutto aleatorio.
C’è anche da far notare che i Due Fornaciari non riproducevano “piccole plastiche di stile Vietrese”, poi, cosa sarebbero queste piccole plastiche? Sembrano siano caccole di naso o schifezze simili!
Una delle tante forme corrette possibili, in lingua italiana, vuole si scriva “figurine policrome in tutto tondo”, forse per lor signori è troppo.
Certamente le “piccole plastiche” non erano di stile vietrese, bensì del personale tocco che aveva fino ad ora contraddistinto Macedonio nella Società i Due Fornaciari.
Basta!
Da qui in avanti, cominciando con…riproduceva lo stile vietrese… i romanzieri aumentano in maniera esponenziale e con veemenza il paragonare le opere del Maestro a ogni cosa e persona.
Che il lettore non si faccia trarre in inganno dalla cromia: i colori composti di ossidi metallici producono ovunque, gli stessi effetti, ciò non significa aver per forza preso spunto.
Siamo nel vilipendio e falso ideologico.
Vi è un altro paragone dell’opera, come rafforzativo del precedente …tradizionale maiolica popolare barocca… che è proprio altra cosa.
La maiolica Barocca era adatta a contenere piuttosto che decorare.
Che vergogna, se almeno si fossero scelti bene i paragoni, sarebbero potuti essere costruttivi, ma così è solo fango che cola.

Pag. 27; dal rigo 1 al rigo3
Periodo: 1942.
Si riporta il pensiero.
Il gruppo scultoreo non ebbe altrettanta fortuna, il primo premio fu vinto dal ceramista faentino…
Per come si afferma, sembra quasi si trattasse di una vincita al lotto! 
In realtà Macedonio e Vetere, non vincendo, sembrerà strano, avevano raggiunto lo scopo…
Se si fosse citato il bando di concorso, il lettore avrebbe compreso perché fu un bene sacrosanto non aver vinto.
Nel regolamento del concorso indetto dal Museo delle Ceramiche e del vetro di Faenza, si richiedeva un’opera che fosse riproducibile all’infinito, motivazione completamente diversa dai precedenti concorsi che premiavano le creazioni artistiche originali.
Ideologia nuova per l’Italia ma già vecchia per l’Europa. 
S’iniziava a maturare anche in altri luoghi, e indipendentemente dal regime, “…il sogno ottocentesco divenuto realtà… auspicato dal prof Borrelli, concetto già studiato, apprezzato e superato da Macedonio.
Fu questo a far vincere Macedonio nella vita, perdendo il concorso.
A conti fatti, il vero artista si differenzia dal mero artigiano, poiché esula da qualsiasi rapporto verso la produzione artigianale, fortemente legata alle oscillazioni di mercato e al rinnovarsi del gusto o della moda corrente: utile solo per accontentare la “clientela”.
Egli per forma mentis, crea opere che in genere rimangono uniche, fuori dalla moda e dal tempo, anche se riproducibili, si chiamano opere d’arte ed è di questo che si parla scrivendo di Macedonio.
per lui l’arte è libera e senza vincoli.
Con questo concetto la differenza diventa tangibile.

Pag. 27; dal rigo 14 al rigo19.
Periodo: Generalizzato 1938-’46.
Si riporta integralmente il pensiero.
Inoltre in piena epoca fascista, la scelta di un linguaggio espressionista di ascendenza tedesca, si caricava di significato politico giacché additato come stile di quell’arte “degenerata” e “eversiva”, molto lontana dal rassicurante naturalismo novecentista.
Nessun commento possibile, incomprensibile garbuglio contradittorio.
Pag. 27; dal rigo 20 al rigo23.
Periodo: generalizzato dal 1938-‘45
Si riporta integralmente il pensiero.
L’attività dei “Due fornaciari” di questi anni è caratterizzata dalla produzione di campioni di pezzi unici in maiolica e cotto patinato in sotto vernice.
Si scrivono cose contrastanti.
I campioni di qualsiasi cosa sono il preludio di una produzione o la dimostrazione per una vendita.  
Una qualsiasi proposta di vendita ha come premessa la scelta attraverso una campionatura.
Mentre finalmente, anche se forse solo casualmente e in un idioma elementare, qui si ammette con palese sforzo, che i Due Fornaciari producevano pezzi unici.
Che poi neanche era vero, ma in altri termini.

Pag. 27; dal rigo 23 al rigo28.
Periodo: 1941-‘42
Si riporta integralmente il pensiero.
Ricordiamo una piccola ciotola ovoidale in maiolica policroma raffigurante nel cavo il ratto di Proserpina, dove l’apporto di Vetere non si limita più solo alla fase progettuale ma anche a quella squisitamente “stilistica”.
Nessun commento, anche qui, l’idioma utilizzato non ne permette la comprensione.
Si faccia attenzione, la “piccola ciotola” non è di Vetere, come invece sembrerebbe, bensì di Peppe Macedonio.
Per inciso, non si conoscono opere dei I Due Fornaciari eseguite da Vetere, egli persona carissima al maestro fu nella società una figura di finanziatore più che di co-autore.
Ragione dell’assenza di sue opere, ricordando che egli era un’Artista del Metallo e che aveva solo investito con Macedonio.
Pag. 27; dal rigo 28 al rigo32.
Periodo: 1941-’42.
Si riporta integralmente il pensiero.
Infatti i fluttuanti amanti immersi in suggestive atmosfere cromatiche alla Chagall, presentano forme nitide e appena sbalzate, che ricordano le opere in metallo di Romolo Vetere.
Quanto si afferma è eticamente scorretto, oltre che sconveniente.
L’impronta di un artista, tale per le sue opere, è personalissima e distinguibile, in qualsiasi altro modo sia stata creata.
Gli scrivani tentano di affermare, in un linguaggio molto rudimentale che le atmosfere cromatiche di Macedonio, ricordando le opere di Vetere somigliando alle atmosfere di Chagall, sperando che esse non siano enormi e puzzolenti peti prodotti dal Maestro francese e di cui nulla si sa.

Pag. 27; dal rigo 46 al rigo50.
Periodo:1942-‘43.
Si riporta integralmente il pensiero.
Dal 1942 Macedonio trovò occupazione come disegnatore presso l’industria bellica Alfa Romeo, per poi esserne allontanato per la mancata aderenza alle ideologie fasciste.
In antitesi con il precedente inneggio fascista alla Pag. 25; dal rigo 25 al rigo 29. Da questo trafiletto senza risalto, si evince che Macedonio dovette iscriversi al P.N.F. per sopravvivere, come da sempre lui stesso ha gridato al mondo, in tutta la sua vita, ma non abbracciando l’ideologia, non sentiva il trasporto dell’animo.
Egli come affermato, era un osservatore del mondo, al di fuori di esso, neutrale per gli avvenimenti. Come lo spettatore di uno spettacolo cinematografico, vede scorrere le immagini sullo schermo, emozionandosi, certamente, ma rimanendo sempre spettatore, fino alla fine del film, quando finito la proiezione, si accende la luce della sala e si esce, uscendo dalla vita.

Pag. 27; dal rigo 51 al rigo64
Periodo: 1943-46.
Si riporta integralmente il pensiero.
Nel 1943, durante l’occupazione delle truppe alleate, l’artista rientrò in contatto con l’amico pittore Emilio Buccafusca, che all’epoca operava come chirurgo presso il General Hospital di Napoli, al servizio dei soldati americani.
Qui la croce rossa americana aveva istituito, come terapia di recupero psicologico, la cosi detta operazione “fare le crete”, condotta da miss virginia Wolfic; la creta proveniva dalle cave di Airola (Benevento), a esclusivo uso dell’ospedale. Tramite Buccafusca Macedonio poté inserirsi in tale progetto, mettendo a disposizione il proprio forno di Antignano per la cottura dei pezzi.
In realtà fu il contrario: il dottor Buccafusca ebbe bisogno di Peppe Macedonio, eccome.
Ecco cosa afferma il Maestro in proposito, attraverso i suoi ricordi.
Il Dott. Buccafusca lavorava a un progetto Americano, in cui si tentava di curare gli stress bellici attraverso la manipolazione della creta. Fu per lui già un’impresa, il solo riuscire a trovarne, (si precisa che Airola non ha cave di creta, l’informazione è totalmente errata).
Il Dottore incontrò poi altri grandi ostacoli alla realizzazione del suo progetto, in quei tempi di miserie e distruzioni, fu arduo e inutile il suo ricercare un forno per ceramiche funzionante o i colori e smalti per dipingere e rifinirli; la guerra e le restrizioni di regime sull’uso dei metalli da cui ricavare gli ossidi, erano riuscite a interrompere totalmente le attività legate alla ceramica.
Tutte le fabbriche erano chiuse.
Un’unica fornace funzionante però vi era e guarda caso era proprio quella dei Due Fornaciari, (cui egli infine, si rivolse più per scrupolo che per altro, non pensando…), e dove invece, con sua sorpresa trovò anche riserve di colori e vernici in abbondanza, materia prima necessaria ad una attività del genere.
Non ad Antignano, ma al numero 91 di via case Puntellate, sede della loro ditta, che non è la stessa cosa.
Il Buccafusca consultò i due sulla possibilità di un’integrazione di lavoro, per sua assoluta necessità, che fu accettata di buon grado: quindi non fu per grazia, ma per bisogno!
I Due Fornaciari entrarono a far parte del progetto, permettendo al Buccafusca di assolvere l’incarico assunto.
Da qui poi indipendentemente dal suo programma, “fare la creta”, come fu chiamato, nacquero nuovi interessi.
Ai due, fu presentato un Colonnello, ausiliario delle Forze Alleate, un bel pezzo di “ragazzona” della stessa età della fidanzata del maestro, miss Virginia Wolfe, originaria del Nebraska che chiese loro se potevano produrre tazze da caffe.
La domanda fu ovviamente accettata e si dette inizio alla produzione in serie di tazzoni da caffè per la Red Cross.
Era un periodo triste per tutti e i morsi della fame si facevano sentire.
Questo lavoro porterà benessere alla famiglia che usufruiranno di derrate alimentari e generi di seconda e terza necessità.
Accaddero molte cose in quel periodo, neanche accennate nel catalogo e considerando che questo mio documento è solo una sua correzione, affermerò che il 1945 lo vedeva sposo di Giuseppina Garofalo con padrino d’anello Romolo Vetere.
Un anno più tardi, puntuale, nasceva il sottoscritto.

3. La manifattura Macedonio tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
Pag. 30.
L’immagine capotesta è a pagina 61.

Pag. 35; dal rigo 1 al rigo 4.
Periodo: 1946.\1980-86
Si riporta integralmente il pensiero.
Terminata nel 1946 l’avventura ceramica dei due fornaciari, Macedonio fondò finalmente un proprio laboratorio in via case Puntellate, 91 al vomero, che rimarrà attivo fino al 1986.
L’attività della Società I Due Fornaciari non è e non la si può identificare come un’avventura.
Si ricorda agli “amanuensi” che si sta riferendo a due persone di tutto rispetto e non a due avventurieri.
La loro quindi, è una scortesia irriverente verso quanto Macedonio e Vetere hanno realizzato, soprattutto prendendo atto del difficile e complesso momento storico. 
Nessuno, immagino, abbia autorizzato l’uso di un tale linguaggio irriverente. Presuntuosi e sciocchi e per questo con la boria volere sempre la ragione, riempendo di fango chi gli pare.
Eccomi nuovamente costretto ad altre precisazioni storiche: Quale fu la ragione per cui i Due Fornaciari si separarono?
Interrogativo ignorato, per mancanza di notizie, citando il fatto, in modo da generare nel lettore le più disparate ipotesi…
Peppe Macedonio e la moglie Giuseppina Garofalo, in quel lontano periodo abitavano a Villa Paradiso (alla fine di via Pietro Castellino), dove nacque il loro primogenito Eugenio, il sottoscritto.
Lì la zia Nanà recandosi tutte le mattine a piedi da via 84(Torrione S. Martino) dava man forte alla famigliola, per poi far ritorno a casa il pomeriggio dove aveva da badare ad altri componenti della famiglia.
Mia madre Giuseppina, infatti, aveva due zie, sorelle del padre Vincenzo, zia Gelsomina la maggiore, detta Mimì, impiegata come segretaria di concetto presso una manifattura tessile in piazza Nicola Amore e zia Anna, casalinga, affettuosamente Nanà.
Abitavano allo stesso indirizzo e con loro vi erano il fratello Vincenzo, (padre di Giuseppina) con la seconda moglie Pierina e la loro mamma, nonna Serafina.
Fu lei, Nanà che offrì il maggior contributo alla famiglia, nel crescere il loro figlio dell’amore o come si diceva, il “capolavoro di Peppe” e poi in seguito si occupò anche di Lucia. Mentre il terzogenito, crebbe nella casa-laboratorio.
Per ragioni che allungherebbero troppo il racconto, spiegherò che per motivi familiari, i Macedonio furono costretti a trasferirsi “momentaneamente” presso lo studio del Maestro  a “Case puntellate”, dove allestirono in fretta e furia due vani, camera da letto e cucina, lasciando il resto come laboratorio.
Le zie, insieme al resto della famiglia, si trasferirono, nello stesso periodo, nell’abitazione al primo piano, giusto sopra il laboratorio.
Crebbi con loro, in un ambiente più familiare, meno caotico della casa-laboratorio dei miei genitori, in cui persistevano correnti d’aria e improvvisi sbalzi termici a causa delle alte temperature dei forni.
Variazioni termiche certamente poco salutari per un neonato.
Così il laboratorio dei Due Fornaciari, in quel lontano ’46, divenne anche casa Macedonio e la società si sciolse, in virtù di fatti nuovi, scelte di vita della famiglia e di Vetere.
Macedonio quindi, non fondò proprio niente, semplicemente continuò a rimanere dov’era sempre stato, ma stavolta da solo.
I tazzoni per gli Americani furono l’ultima commessa espletata dai due, dopodiché le strade si divisero.
Saldato quanto la Società doveva, ai lavoranti, con un lauto margine per tutti chiuse i battenti.
La città era ancora tra le rovine della guerra ma se ne sentiva oramai la fine e ognuno tentava di riprendersi la propria vita al meglio delle possibilità. 
Il trasferimento della famiglia nel laboratorio, la ricerca di una migliore sistemazione, l’aria di rinnovamento che si respirava a quei tempi, liberi dall’oppressione, fece maturare in tutti l’idea di poter realizzare cose nuove e meravigliose.
Vetere ritornò a insegnare presso la sez. metalli dell’Istituto Statale d’Arte, ribattezzata Francesco Palizzi, felice di liberarsi di una società che gli era sempre andata stretta, intrapresa anni addietro solo come personale investimento e in cui in realtà, non si annoverano neanche sue opere, solo sigle societarie.
Macedonio ebbe l’allettante proposta di insegnare Pittura ma, Spirito libero, rifiutò subito l’incarico.
Quanti lavoravano nel laboratorio, intrapresero altre strade: i due Pinto, padre e figlio, allestiranno un ampio laboratorio, prima al Rione Luzzatti, poi in via Tino da Camaino al Vomero, negli scantinati di una nuova costruzione del risanamento, appena ultimata, producendo piastrelle in bassorilievo con le classiche voci popolari, oggetti da mercatino, articoli che il mercato richiedeva, in più stoviglie, tazze, con un ottimo successo commerciale.
Rovinolo, dal canto suo, torniante molto richiesto, fu assunto dalla Ditta Freda, ai “Ponti Rossi” dove rimase fino alla pensione.
Di tanto in tanto, veniva a trovarci, anche dopo la morte del Maestro e si avvertiva che in cuor suo c’era la nostalgia di quei tempi oramai andati.
Aldo Stella si trasferì da S. Giovanniello al rione Luzzatti, zona più nuova ed economica, dove allestì, sempre in uno scantinato, una nuova fabbrica di ceramica, che così diceva, tirava abbastanza bene.
Qualche anno dopo si ritrasferì al Vomero in uno scantinato di via Morghen, adiacente alla funicolare di Montesanto; il Maestro me lo ricordava con grande tristezza, in preda agli acciacchi e a un’ernia micidiale.
Il Buccafusca non incontrò alcuna difficoltà, continuando a fare il medico mentre il Cocchia lo ritroveremo, tra pochi anni, alla Mostra d’Oltremare, a modificare la grande fontana …
Questa fu la storia di quel periodo, altro che; fatti presenti nei personali ricordi del Maestro, nei racconti di mia madre, delle zie e amici, Rovinolo in testa.
Tutto ciò accadeva a cavallo della fine della produzione dei tazzoni per la Red Cross e Macedonio, cercando di raggiungere il suo sogno, unire la plasticità dell’argilla con il colore della pittura in grandi pannelli, cominciò a prendere contatto con gli architetti del momento, proponendo loro la sua idea innovativa.
Dopo un lungo cercare, la cosa piacque e come si vedrà, egli avrà modo di esprimersi, addirittura superando la sua aspirazione.
La frase: …che rimarrà attivo fino al 1986, è un anticipo alla conclusione terrena di Macedonio, mal espressa, rinsecchita e romanzata nei fatti.  
Non è certamente come scritto, anzi.
Mettetevi comodi e leggete…
Il terremoto del1980 contribuì a frenare ulteriormente il lavoro del maestro.
Tre anni dopo, complice la carenza di appartamenti, dove aveva trovato posto il grande forno, oramai in disuso da anni, fu ritagliato un pezzo di terra, 50 mq cinque di larghezza per dieci di lunghezza per fabbricare la casa a suo figlio Eugenio.
La figlia secondogenita, Lucia, aveva già avuto un appezzamento di terreno di tutt’altro valore, 1000mq sull’isola di Stromboli, meraviglioso e panoramico, scelto sull’isola in cui in quel periodo viveva con la sua famiglia.
Eugenio, nel costruirsi la casa post terremoto, in quel poco spazio, tenne conto delle esigenze del padre, facendo attenzione a lasciare un piccolo studio attrezzato, come laboratorio in cui ospitare, Peppe Macedonio e il forno.
Il Maestro vi costruì un ottimo forno elettrico, niente di più ma sufficiente per la produzione di oggetti per l’arredamento e non solo.
Lì furono cotti i primi “Mestieri e’ Pullicenella”, in terracotta, di cui 24 di essi appena sfornati, fanno ora parte di una collezione privata.
Quella dei Pulcinella di terracotta fu una produzione precedente ai “Pulcinella” dagli smalti policromi, mai più ripetuta.
In quello studio furono creati i vasi e i piccoli oggetti dei suoi ultimi anni.
Insomma, il Maestro, attivo, produceva quanto di suo desiderio.

Pag. 35; dal rigo 4 al rigo29
Periodo: 1946-’53.
Si riporta integralmente il pensiero.
Fin da principio la manifattura si specializzò in ceramiche per l’architettura e l’arredamento entrando in contatto con l’architetto Gino Avena…omissis … il sodalizio artistico fu inaugurato nel 1947, con la realizzazione di un modello per mensole a sostegno dei balconi del Palazzo Panorama in via Aniello Falcone, edificio in ristrutturazione, progettato nel 1939 dallo stesso Avena.
Nessun sodalizio artistico, soltanto una fortunata casuale committenza, idonea a mettere in luce il Maestro.
In realtà, Peppe Macedonio, fu spinto dallo stesso arch. Avena, a studiare un sistema che fosse allo stesso tempo economico, decorativo e funzionale, adatto a coprire i rinforzi reggi-balconi, (consolidamenti brutti e sporgenti, applicati per rinforzare i balconi). Macedonio, con un sistema a dir poco geniale, risolse brillantemente il problema, creando un mezzo tronco di cono delle giuste dimensioni, adatto a coprire il rinforzo armato.
Il montaggio era geniale.
Costruito in maniera da rimanere infisso nella parete della facciata, permetteva di contenere la malta cementizia di consolidamento.
Il mezzo tronco di cono, molto svasato, era dunque una struttura autoportante, decorata sulla parte esterna con motivi classicheggianti, foglie di Acanto e figurine in altorilievo o come li chiamava il Maestro: i cirifogli.
Questi oggetti realizzati per un uso architettonico e costruttivo, furono le prime realizzazioni specifiche in ceramica per l’architettura.
Decorativi, funzionali, economici e pratici.
L’arch. Avena li ritrovò confacenti e superiori alle attese.

Pag. 37; dal rigo 1 al rigo5
Periodo: 1948.
Si riporta integralmente il pensiero.
Infatti, il linguaggio di Macedonio, dopo essersi arricchito del plasticismo e cromatismo vietrese e della tecnica dello sbalzo di Vetere, comincia a virare verso uno sfrenato espressionismo dall’esito grottesco.
Fatto sta che l’opera del Maestro è paragonata a un periodo impressionista e a figure grottesche. Sconvolgendo nel profondo il concetto di storia dell’arte o ancor peggio affermando che il Maestro copiava, per cui intensificherò qui d’appresso il concetto.
Intorno al ’48, l’arch. Avena, ristrutturando un appartamento al borgo Santa Lucia, in via Palepoli, gli affidò l’incarico di creare un pannello divisorio, una specie di arioso paravento, adatto a separare un ambiente troppo grande.
Il Maestro ideò un modulo ripetibile per misura, i cui multipli portassero alle dimensioni richieste.
Decise per una serie di sei moduli monolitici rettangolari di circa cm 40\45 x cm 25\27 di base, traforati e decorati con figure a tuttotondo che, montati su un’adeguata struttura metallica avrebbero raggiunto le dimensioni richieste: circa cm 75 di base, quindi tre pannelli affiancati x cm 80 di altezza, due pannelli sovrapposti, uniti secondo il gusto del committente, dando nell’insieme la pannellatura completa.
…espressionismo dall’esito grottesco. Chi scrive non ha minimamente compreso quale fosse il reale proposito per quelle strane forme allungate e distorte!
Il maestro intese simulare l’ambiente marino, nelle forme e nel colore, tutto era ammantato di verde acqua, ottenuto con il verderame (stesso biossido di rame usato nelle manifatture vietresi e la rassomiglianza finisce qui).
Anche quest’opera fu realizzata presso la ditta Freda, in virtù del fatto che possedesse forni capienti adatti per accogliere le dimensioni volute dal Maestro.
Nessuno dice poi che tale opera, nata come “frangi-sguardo” a separare ariosamente un ambiente ampio, fu sistemata invece sul davanti di una parete curva, perfetta opera di arredamento.
Il tema scelto dal Maestro era rappresentare momenti di vita sottomarina. Egli, con una visione pittorica, aveva distorto le figure per dare l’impressione che fossero immerse nel mare, imitando l’effetto prodotto dalla rifrazione dell’acqua.
Il Maestro conosceva bene le deformazioni date dal riflesso come accade dall’osservazione di un remo immerso in acqua, la cui immagine appare spezzata sembra che neanche questo faccia parte dell’esperienza dei raccontatori, oppure i consigli di chissachi erano insufficienti.
Mancano i titoli e le competenze per le critiche gratuite sull’arte, così come lo scindere un esito espressionista da un altro.
Quello che non va giù, è che, secondo quanto scritto nelle pagine malamente rilegate, questo Macedonio sia proprio un copione irrefrenabile!
Per realizzare i pannelli (questa è l’allusione chiara) Macedonio ha dovuto copiare il plasticismo vietrese o di altra origine come fece nel:
1927, pag. 18  rigo 28 a 33.
1928, pag. 19, rigo 17-19;  rigo 53- 54.
1938, pag. 22, rigo10 a19. 
1942, pag. 26, rigo 19 a 23.
Si ricorda agli “amanuensi”, che Il Maestro, considerato massimo Ceramista del ‘900, è ridotto ad “arricchirsi del plasticismo e cromatismo vietrese…”Il termine “arricchirsi” nella lingua italiana significa accrescere, aumentare, (fonte thesaurus), per aumentare, arricchirsi o accrescere; vi è un unico significato: copiare, o peggio, prendere, rubare l’idea il concetto.
Le calunniose affermazioni proseguono scoprendo che Macedonio si è “arricchito” della tecnica del cromatismo e plasticismo vietrese; della tecnica dello sbalzo di Romolo Vetere; del modo di plasmare le figure dell’espressionismo: di tutti i possibili artisti europei…!
Domando: Macedonio ha realizzato veramente qualcosa di suo?
Quanto si afferma, non trova riscontro.  
È soltanto una calunniosa affermazione di pura fantasia degli scrivani e di chi ha fornito loro incautamente informazioni.
Il concetto fuorviante è poi ripetuto di continuo.
Pag. 37; dal rigo 12 al rigo19
Periodo: 1947-’53 indefinito.
L’ultimo incarico di Avena al ceramista, risalente al 1947\’50, fu la decorazione del portale e dell’androne interno di un edificio in via Mario Fiore al Vomero, costruito dall’ing. Armando D’Auria tra il 1950 e il 1953 che inaugura una tipologia decorativa….
Sembra che Macedonio abbia avuto quest’incarico molto tempo prima addirittura prima che fosse costruito il palazzo.
Infatti, è chiaramente riportato che l’ultimo incarico dell’Arch. Avena Macedonio lo ebbe in una data imprecisata tra il ’47 e il ’50, mentre il palazzo fu costruito tra il ‘50, è il ’53.
Totò diceva: Ma mi faccia il piacere.
Eduardo de Filippo avrebbe fatto una sonora pernacchia.
Il sottoscritto, più modesto, si rende soltanto conto, purtroppo di scrivere cose inutili, sprecando per due esseri dannosi e inutili le affermazioni di due grandi poeti, convinto che la miserevole bassezza e superficialità dei loro pensieri non permetta alternative.

Pag. 38; dal rigo 11 al rigo14
Periodo: 1951.
Si riporta integralmente il pensiero.
Il campionario di fiori e animali rappresenta un preludio, in scala ridotta, della decorazione che ritroveremo nella fontana dall’Esedra.
Il Maestro, non sapendo da chi copiare copia se stesso!
Impossibile che a quel tempo pensasse già a quanto avrebbe dovuto fare anni dopo e negli anni seguenti avrebbe dovuto ricordare le opere fatte anni prima! Anche mago!
La maturità raggiunta nelle successive opere non può essere il proseguimento di un preludio.

Pag. 38 dal rigo 35 al rigo38
Periodo: 1951.
Si riporta integralmente il pensiero.
Infine trovano posto anche una natività e una danza di putti, la cui grazia ricorda l’arte della terracotta invetriata di Luca Della Robbia, tra gli artisti preferiti dall’autore.
Ancora una volta il concetto che le opere del Maestro debbano per forza somigliare a qualcosa o a qualcuno e che, per come è descritto, i Della Robbia siano diventati un piatto di portata preferito dal Maestro…
Affermazione mendace e scriteriata.
Pag. 38; dal rigo 46 al rigo49
Periodo: 1951.
Si riporta integralmente il pensiero.
Nella raccolta dei funghi, le donne chinate e il cromatismo acceso riportano alla mente le contadine brettoni di Emile Bernard e Paul Gauguin.
Artisti antitetici.
Ripetizione del concetto offensivo eticamente, mendace.
Un continuo, irrefrenabile vilipendio.

Pag. 39; dal rigo 7 al rigo10
Periodo: 1951-’52.
Si riporta integralmente il pensiero.
Nel portale ritroviamo il fondo dorato e le coppie di figure animali, tutti risolti con uno stile più sintetico, fumettistico e tendente al naif.
Un calderone di stili, senza logica e comprensione, tipico di chi critica l’arte senza farne parte, si ringrazia pertanto chi ha permesso loro di scrivere questo scempio, chi li ha consigliati e alimentati nel pensiero. L’unica soddisfazione è quanto concretizzo nell’ultima pagina, come valore aggiunto.

Pag. 43; dal rigo 4 al rigo6
Periodo: 1952.
Si riporta integralmente il pensiero.
Il vaso presenta un particolare effetto di crettatura alla Burri,…
Mi pregio di dissuadere il lettore dal credervi, quest’affermazione è tra le più stupide, mai riportate da incolti imbecilli.
Non si può paragonare un’opera di Macedonio a un Burri, senza tener conto che egli fu postumo al Maestro, casomai poteva solo essere il contrario.
Burri, Alberto (Città di Castello, Perugia 1915 - Nizza 1995), pittore italiano. Nel 1956 comparvero le sue prime "combustioni", che ai sacchi sostituivano materiali plastici.
Si paragona l’arte del ’52 al ’56, un percorso futuribile.
Che squallore!

Pag. 47; dal rigo 1 al rigo2
Periodo: 1950
Si riporta integralmente il pensiero.
Tra le opere esposte ricordiamo quattro piccole plastiche…
Termini incomprensibili.
In lingua Italiana si dice: “ oggetti in tutto tondo”, monocromi o policromi.
S’impari a scrivere, s’impari a tener conto delle parole, s’impari a vivere.

Pag. 47; dal rigo 6 al rigo9
Periodo: 1950.
Si riporta integralmente il pensiero.
Brocca a forma di donna, splendido esempio di ceramica antropomorfa dallo stile allo stesso tempo espressivo e funzionale, che ricorda le coeve creazioni di Gambone.
La parola antropomorfa, deriva dal greco antico.
La scelta di termini così specifici al titolo “brocca a forma di donna” è tipica di chi, vuole far mostra di se stesso e della propria inesistente erudizione scimmiottando concetti fuori della portata, un lessico forbito, non aggiunge valore alla descrizione, la complica.
Ecco poi un’altra somiglianza nelle opere del Maestro!
Il Gambone…
Egli bravo ceramista è distante da Macedonio, unico nel suo stile e con un diverso indirizzo culturale, non è imitabile, come invece si afferma in questa ennesima ingiuriosa insinuazione.
Mi scuso personalmente con gli eredi del ceramista Gambone, per quanto altri, offensivamente hanno affermato.
Una volontà sottile con cui di continuo si svilisce la qualità creativa arrecando un danno alla memoria e d’immagine non solo del Maestro.
Si riporta al “valore aggiunto”.

Pag. 47; dal rigo 25 al rigo29
Periodo: 1950.
Si riporta integralmente il pensiero.
La torre di Babele, dove Macedonio rielabora attraverso il filtro delle esperienze vietresi,…
Ancora ritroviamo che le opere del Maestro debbano rassomigliare a qualcosa o a qualcuno.
Ancora un danno all’immagine, un vilipendio, una ingiuriosa personale affermazione, cui si ringrazia chi ha dato loro questa possibilità.
Esperienze fatte da Macedonio a Vietri, per un brevissimo periodo, all’età di 21 anni, più per ricerche “culturali” attraverso gentili nobildonne, che altro. Quella breve esperienza è però ricordata così di continuo da ridurre il valore della ricerca artistica del Maestro attuata per una vita intera!
Comunque visto l’andazzo dello scritto, nel caso non fossero stati vietresi, sarebbero di qualche altra natura.
C’è però da dare credito al fatto che il tutto abbia una sua continuità… stancante e monotematica di chi tenta di scrivere.
Questo porta a comprendere che la torre di Babele, proprio come concetto filosofico della storia, sia una metafora per pensare e rendersi conto di errori, fatti anche sugli errori degli altri.
Proprio come il testo in analisi, in cui errori provenienti da falsi consigli, come un effetto domino, generano errori di concetti permettendo errori ancor più vasti nello scrivere.
Mia sorella Lucia, ad esempio, si è vantata del fatto che le persone cui aveva affidato la stesura, traevano informazioni dalla famiglia del prof. G. Borrelli.
Personalmente considero il Professore conoscitore dell’animo umano, uomo di esperienza e sensibilità, così come tutta la sua famiglia.
Comprendo che la disponibilità del Professore sia stata richiesta, forse anche forzata e fraintesa.
Caduta in mani sbagliate, si osservi cosa ha prodotto.
Qui si comprende l’abissale differenza tra essere ricercatore filologo o scrivano, ed ecco cosa in realtà Macedonio voleva trasmettere con la creazione di una ziggurat, un esempio di ciò che riserva la vita, se non il concetto della vita stessa, altro che il “filtro delle esperienze vietresi”!
“La carta di musica in mano ai carnacottari”: aforisma napoletano.

Pag. 47; dal rigo 21 al rigo24
Periodo: 1949.
Si riporta integralmente il pensiero.
…stilisticamente il piatto presenta un sottilissimo stiacciato, memore della tecnica a sbalzo che lo accomunava alle opere eseguite durante il periodo dei “Due Fornaciari”
Ciò significa che anche la fontana dell’Esedra si accomuna con le opere precedenti, essendo stata realizzata con la stessa tecnica.
Nessun altro commento... pensiero troppo superficiale.

Pag. 47; dal rigo 27 al rigo 30
Periodo: 1949-’50.
Si riporta integralmente il pensiero.
Date a Cesare quel che è di Cesare, un pannello policromo, dove su uno sfondo mosaico e oro, emergono figure in bassorilievo dal modellato più dilatato e rotondeggiante e dal tono umoristico sentimentale.
La storia dell’arte vede qui rappresentato un nuovo termine descrittivo: umoristico sentimentale”.
Ancora si mortifica la figura del Maestro rasentando il ridicolo.
Pag. 50; dal rigo 36 al rigo 43
Periodo: 1952.
Si riporta integralmente il pensiero.
L’opera più importante fu un piano da tavolo…\...eseguito con la tecnica dello smalto sul cotto, con gruppo di contadini e contadine intenti a vangare e a seminare, dove al sostrato vietrese l’artista raggiunge le suggestioni della pittura rupestre, soprattutto nella definizione degli animali galleggianti in spazi indefiniti.
Dove sono i riscontri di quanto si va affermando?
Parole espresse, più per “allungare il brodo” che per pura descrizione dell’‘opera ma che contribuiscono a denigrare il lavoro e l’immagine del Maestro.

Pag. 50; dal rigo 55 al rigo62
Periodo: 1952.
Si riporta integralmente il pensiero.
Stesse tecniche le ritrovano anche in uno splendido e coloratissimo pannello con allevatori, dove le mattonelle figurate presentano un forte sapore nordico alla Brueghel, mentre il motivo dei tori e l’opus incertum, con l’alternanza di tessere Cobalto e turchese, presentano soluzioni formali e cromatiche della monumentale fontana dell’Esedra.
È evidente dal paragone la carenza culturale.
Non specificando chi dei Bruegel s’intende accostare al Maestro.
Ancora le opere del Maestro rassomigliano a qualcosa o a qualcuno, questa volta tocca a Bruegel, anche se com’è scritto, forse si fa riferimento a qualche altra persona, poiché il cognome dei pittori fiamminghi si scrive senza ”H”.
Ammesso che possa essere un errore, rimane il dubbio e la curiosità di sapere quale dei tre fosse, visto che vi sono almeno tre pittori dallo stesso cognome ed è evidente che paragonarne l’uno o all’altro, per chi ha scritto ciò e il resto, sia la stessa cosa!
Bruegel Pieter il Vecchio, (Breda, Brabante 1525 ca. - Bruxelles 1569), pittore e disegnatore fiammingo;
Bruegel Pieter il Giovane (Bruxelles 1564 ca. - Anversa 1638), pittore fiammingo,
Bruegel Jan (Bruxelles 1568 - Anversa 1625), pittore fiammingo.
Il vero danno è però il non aver saputo descrivere la particolarissima tecnica di Macedonio nel creare l’opus incertum.
Tecnica assolutamente personale, non paragonabile a nessun altro al mondo e nel tempo.
Il risalto alle sue opere sbalzate è dato proprio dall’opus, con cui il Maestro usava contornarle.
Non nel modo filosofico in cui lo intendeva l’architetto Spagnolo Gaudì, (Gaudí y Cornet, Antoni - Catalogna 1852 - Barcellona 1926),
la cui tecnica di rompere le mattonelle e incollarle mantenendone la forma originale e mostrando le fratture, nasceva da un preciso e diverso concetto filosofico.
Il Maestro Macedonio, al contrario, non doveva trasmettere concetti filosofici di alcun genere, essi arrivavano dalle stesse immagini.  
Spesso gli effetti cromatici erano ottenuti con il verderame…. Influenze vietresi forse?
E così nel precedente rigo, 43 a pagina 50, il libro sentenzia: …nella definizione degli animali galleggianti in spazi indefiniti.
Forse trattasi di carogne che per il contenuto di azoto prodotto dalla decomposizione, salgono in superfice, per cui galleggiano!
Non si tratta certo delle creazioni del Maestro che nessuno ha mai visto galleggiare!

Pag. 55; dal rigo 1 al rigo5
Periodo: 1958-’59.
Si riporta integralmente.
Lo stile di Macedonio, cominciò ad assumere una valenza scultorea nel grande fregio L’uomo e la famiglia nella natura, eseguito  tra il 1950 e il 1953  per una facciata a un edificio ai Ponti Rossi.
 “la valenza scultorea”, non si assume, non è un medicinale.
Ho già pazientemente spiegato in precedenza che tecniche di uno scultore, anche nel plasmare la creta, sono diverse da quelle di un ceramista.
Lo scultore plasma poiché deve creare un modello che sarà a sua volta trasformato in bronzo, mentre il ceramista crea un’opera che non sarà trasformata.
Già questo Motivo per dire che Macedonio non era uno scultore.
Ciò significa che per il ceramista lo spessore dell’argilla dev’essere quanto più omogenea e sottile possibile, in proporzione al pannello.
Perfino le ceramiche dell’esedra, nei punti più spessi, non superano i “2” cm di spessore.
Un tutto tondo, come un bassorilievo anche di modeste dimensioni deve essere vuoto all’interno, di spessore uguale e con i fori per l’aereazione interna.
Ciò evita accumuli di umidità che nella cottura tenderebbero a crepare l’opera.
Questo vale anche per le tecniche dello sbalzo usate da Vetere per il metallo e da Macedonio per i bassi o altorilievi che sembrano simili tra loro agli occhi inesperti, mentre non lo sono.
Pag. 37; rigo1a5.
Quest’è tutta la descrizione di una delle più belle opere del maestro.
La data riportata è sbagliata, quest’opera risale al maggio del 1958, per l’inizio della lavorazione fino all’agosto del 59 per la realizzazione.
Settembre e ottobre per il montaggio marzo aprile per lo smontaggio.
Altro errore: non è mai stato un fregio.
“L’uomo e la famiglia nella natura”; quest’opera commissionata nell’autunno del ’58, entrò in lavorazione verso la fine di maggio al Centro Sperimentale Ceramiche Artistiche, Mostra d’Oltremare, luogo in cui il Maestro e la moglie Giuseppina insegnavano, (cui le pagine male assortite ne tracciano una linea erronea nelle date, nei concetti e nelle conclusioni, addirittura inesistenti).
Ebbene, in quel tempo, il Maestro, circa nel mese di febbraio del ’58, ebbe una proposta abbastanza singolare: la realizzazione di una intera facciata di un edificio di tre piani, con figure in ceramica in tuttotondo, che dovevano venire montate su di un graticciato metallico che la ricopriva interamente, posto a circa 40cm di distanza dai balconi, per l’altezza dei tre piani, iniziando dal solaio dei sottostanti magazzini e per una larghezza di circa 12 mt.
(il progetto, espresso, descritto e accettato verbalmente, prevedeva 14 figure più piante e fiori, da sistemarsi su questo graticciato portante in modo che dai balconi retrostanti si potesse osservare il paesaggio attraverso le figure stesse e dalla strada, le stesse figure, avrebbero agito come un gigantesco paravento, mitigando al mondo la visione retrostante dello svolgersi della vita).
Un’opera come di una gigantesca “filigrana”, che escludendo i 4,80 mt da terra al primo piano, occupato dai sottostanti magazzini e in cui vi erano soltanto i sostegni di appoggio del “graticcio” e la balaustra del cornicione sovrastante, comprensivo del solaio di copertura, circa 1,50 mt, lasciava alle opere uno spazio di circa 12 mt di altezza  per 6 di larghezza.
Una facciata che aveva tre balconi in verticale x tre in orizzontale.  
Occorsero quattro mesi per plasmare le figure, le foglie, i fiori, e i gigli dalla forma arcaica, la cottura avvenne nello stesso Centro Sperimentale Ceramica e poi verso la fine del mese di agosto, fu montato con dovizia ed equilibrio.
Divenne un frangisole di un effetto da indescrivibile meraviglia, forse l’opera più bella di Peppe Macedonio.
Le figure, contornate da foglie e fiori ben equilibrati in quell’ampio spazio, e con quanto accadeva sui balconi retrostanti, offrivano una visione d’insieme nello stesso tempo, magica e conturbante.
Come nascosta dal sottobosco di una giungla immaginaria fatta di fantasia.
I condomini apparivano come immersi in una boscaglia improbabile.
Il reale che si amalgamava alla fantasia, l’arte che esaltava la vita. Quest’opera bellissima ebbe però breve esistenza.
Forse anche con ragione.
I condomini fecero pressioni verso il costruttore affinché fosse rimosso il graticcio, e di conseguenza le opere, considerato pericoloso per la loro incolumità.
Infatti, spesso i bambini, peraltro scugnizzi popolani e vivaci, lo utilizzavano spericolatamente per spostarsi da un balcone all’altro, come fosse una grande “spalliera Svedese”.
Era evidente il rischio di cadere.
Oltre a ciò, vi era la paura che i ladri d’appartamento avessero la strada spianata per raggiungere le abitazioni, arrampicandosi indisturbati.
A questi motivi aggiunsero poi, che la struttura rovinava i panni stesi e che la visuale del paesaggio era compromessa.
Il costruttore, pur apprezzando l’opera, fu costretto suo malgrado a informare Peppe Macedonio di non poter tenere l’opera, rinunciando a essa, restituendola intatta al maestro e non pretendendo nessun rimborso, visto che l’errore era stato suo.
Una persona, molto corretta, ricordo personalmente.
A Peppe Macedonio non restò che recuperare le opere, che rimasero per casa, al vomero.
Permanenza che peraltro durò poco poco tempo, giacché furono quasi tutte riutilizzate dallo scenografo G. Borrelli. Purtroppo, una delle più singolari, fantastiche opere del Maestro finì smontata, rimossa dalla memoria di molti, in virtù di una volontà più terrena.

Pag. 55; dal rigo 11 al rigo13
Periodo: 1958-‘59
Si riporta integralmente.
La nitida volumetria e l’evidente geometrizzazione formale testimoniano un’originale rielaborazione della lezione cubista di Picasso.
Si fa riferimento al precedente graticcio, dimostrando che ancora una volta è scarsa la proprietà delle parole, formulando strampalate teorie. D’altro canto, tutti noi sentivamo la mancanza e perché no, di un paragone con Picasso.
Quale sia poi questa “lezione cubista”, detta anche Lap Dance, posso tentare di spiegare: fa parte di un’acclarata filosofia erotizzante in cui belle ballerine seminude, a suon di musica, producono sensuali movimenti, con l’intento di risvegliare stimoli altrimenti sopiti.
Il testo non chiarisce da dove nasce il paragone, certo che usino le parole contando sul fatto che spesso il lettore non si sofferma sulle stesse, accettando di fatto, per ignoranza o fiducia nella parola scritta, ogni stupidaggine che furbi ciarlatani organizzano ed espongono con leggerezza.

Pag. 55; dal rigo 14 al rigo17
Periodo: 1958-‘,59.
Si riporta integralmente.
Questa libertà d’espressione, costò al Macedonio il rifiuto dell’opera da parte della committenza,…
Una grande megagalattica stronzata.
Questa frase è un falso vergognoso, un vilipendio infame all’opera del Maestro.
Le motivazioni sono state già riportate con riferimento agli errori riscontrati alla pag. 50 rigo da 1 a 5. 
Mi chiedo chi siano stati i santi personaggi, se vi sono stati, che molto incautamente ha collaborato alla stesura di quest’orrore, certi di fare cosa santa e giusta, istradando e consigliando burattini senz’anima, a scrivere tali ingiuriose Menzognere affermazioni, perpetuando questo vergognoso continuativo danno verso la figura del Maestro.
Dio li abbia in gloria, ragione per salvaguardare il maestro con quanto di “valore aggiunto”.   
Cattiveria gratuita o mera ignoranza?
Mera presunzione, aggiungo e desiderio di vana gloria.

Pag. 50; dal rigo 31 a fine pagina
Periodo: 1959.
Si riportano i brani interessanti e susseguenti.
Fortunatamente nel 1959 l’intero fregio fu recuperato...
Pag 55; Rigo da 39 a 41, L’artista scenografo ideò un’apposita struttura metallica che conteneva l’intero gruppo scultoreo…
Pag 55 Rigo 44 a 48, Appartiene a questo gruppo di figure dal robusto plasticismo, anche la scultura tutto tondo Serenella, una delle tante bambole in maiolica policroma che l’artista scolpiva per far giocare i bambini e i propri figli.
Se a pagina 55, rigo 31, si legge che  “l’intero fregio fu recuperato” e se poi a pag. 55 rigo 39 a 41 si legge che “l’artista scenografo ideò… che conteneva l’intero gruppo”, come si può leggere a pag. 55 rigo 44 a 48: “appartiene a questo gruppo di figure...anche la scultura Serenella…” allora ancora si scrive il falso senza ritegno, in quanto non tutte le figure furono recuperate.
Continuando lo stesso rigo si legge: …una delle tante bambole in maiolica policroma che l’artista scolpiva per far giocare i bambini e i propri figli.
La ceramica a cominciare dalla creta, non si scolpisce, si modella.
La pratica dopo tanto scrivere ancora non ha dato giusto esito.
Le altre affermazioni, ci si rende conto che sono mendaci e del tutto arbitrarie.
Nessuno è a conoscenza di bambole in maiolica policroma prodotte dal Maestro. Ancora il tentativo di denigrare il suo lavoro, al punto di ridurlo a modellare bambole per i bambini, quali? Figli di chi?
Un’artista che ha raggiunto mete altissime con opere che lo testimoniano, perde il proprio tempo a modellare pupazzi di creta per far giocare i figli degli altri e i propri, ma questa è pura pazzia, demenza assoluta!
Si rendono conto gli “amanuensi”, quale sia il messaggio che stanno trasmettendo?


Pag. 61: foglio fuori posto.

4.Le decorazioni della fontana dell’esedra nella Mostra Oltremare
   di Napoli.
La fontana dell’Esedra è il nome proprio di una fontana Romana.

Pag. 70 a pag 74.
Periodo: 1940 e precedente
Prologo dispersivo, inutile ai fini dell’opera del Maestro.

Pag. 78; dal rigo 44 al rigo46.
Periodo: 1950 preludio alla grande fontana della Mostra d’Oltremare.
Si riporta integralmente.
Per l’occasione l’artista scolpì 20 tavolette…
Di un’ignoranza abissale, la creta non si scolpisce.
Dalle memorie di Peppe Macedonio, le datazioni inerenti la grande fontana dell’Ente Mostra sono diverse, sicuramente più accurate, ne riporto qui soltanto due di specifico interesse: Il progetto per il rinnovo della grande fontana della Mostra d’Oltremare risale al Il 16 aprile 1950, data in cui si approva, fino al 7 luglio 1952, data in cui s’inaugura, alla presenza del Presidente della Repubblica, in occasione di una mostra campionaria per i paesi d’oltremare. Non specificamente per la Grande fontana.
La musica e il conseguente spettacolo ebbero inizio all’imbrunire.

Pag. 83; dal rigo 26 al rigo29
Periodo: 1954 fontana dell’Esedra Napoli.
Si riporta integralmente
Macedonio rielaborò la ceramica floreale con originalità, ponendosi a metà strada tra l’elegante modularità e il naturalismo dello stile Capodimonte.
Ancora s’insinua insistendo sul fatto che le opere debbano per forza rassomigliare a qualcosa o a qualcuno.
Molti stili, significa non averne uno personale, rassomigliare a… Vergogna!

Pag. 84; dal rigo 1 al rigo 4
Periodo: 1954 fontana dell’Esedra Napoli.
Si riporta integralmente.
Eccezionale è l’analisi naturalistica da botanico che induce l’artista a soffermarsi su ogni piccolo fiore riproducendone asimmetrie e sporgenze.
È tale lo stupore degli “amanuensi” nei confronti della cultura del Maestro (forse pensano che un artista sia ignorante) Ebbene, il lettore non si stupisca! Macedonio, proprio in funzione di ciò che produceva, aveva una mente e una cultura enciclopedica, in grado di elaborare culturalmente quanto osservava per poi restituirlo filtrato attraverso lo spirito: questo significa generare l’arte!

Il testo termina la breve parentesi sulla fontana dell’esedra; si è parlato di tutti ma non del Maestro né delle date corrette.
Bravi, complimenti per la trasmissione.

5. Ceramica per l’architettura durante il boom edilizio degli anni
   Cinquanta

Inutili e pretenziosi dilungamenti su quanto avveniva già prima del ’36, senza una precisa filologia. Frasi slegate e senza senso.
Il maestro come il solito è paragonato a persone o a cose diverse.
Cliché oramai abitudinario.

Pag. 111 a pag 117;
Periodo: 1952 al ’73.
Dispersive e superflue descrizioni d’insieme di nascenti rioni in Napoli, oltre che di notizie soggettive aggiunte come riempitivo e non inerenti alla catalogazione o alla bibliografia.

Pag. 118; dal capoverso 1 al rigo 8.
Periodo:1950, si riporta integralmente:
Negli anni ’50 Giuseppe Macedonio tappezzò con le sue opere moltissimi angoli del centro storico di Napoli, recuperando il valore popolare e comunicativo della ceramica, una maiolica pubblica, “quotidiana” e “colloquiale”, alla continua ricerca del dialogo e del contatto con l’osservatore.
Falso e senza riscontro e date fraintese.
Certamente un “copia-incolla” mal riuscito; con questo si è raggiunto vette altissime del surrealismo letterario!
Negli anni cinquanta il Maestro era impegnato nel progetto per la grande fontana e per l’industrial design per la Ditta Freda.
In queste righe gli “scribi” hanno anche eletto il Maestro dandogli il titolo di “tappezziere”!
il Maestro non pensò mai di “tappezzare” gli angoli del centro storico: perché poi avrebbe dovuto farlo?  Con cosa?
Non si dice in quale modo questi angoli dovessero essere “tappezzati”, forse bisognava imbottirli con vecchi materassi, per non graffiarsi, o chissà quale altra fantascienza s’intendesse.
Peraltro non sono specificati né quali siano stati gli incroci delle vie interessate né di quale centro storico.   
Ci troviamo ancora in un periodo per molti versi considerato postbellico, (in via Marina vi erano addirittura ancora le baracche).  
I centri storici di Napoli sono almeno due, pari per importanza: il primo, formato dal gruppo di Decumani che da Santa Chiara passando per Forcella giunge ai “Tribunali”, mentre l’altro è composto “dai casermaggi e dagli acquartieramenti” dei soldati Spagnoli.
Non si dice a quali di questi si fa riferimento citando il centro storico.
Posso tranquillamente affermare che in ogni caso e l’un per l’altro, senza togliere merito a nessuno dei due, entrambi i centri storici nel ’50 erano una vera e propria chiavica a cielo aperto, sia dal punto di vista ricostruttivo che per la squisitezza dei residenti.
Una persona non avvezza si sarebbe guardata bene da entrare in quei vicoli, non avendone motivo, tantomeno Macedonio.

Pag. 118; dal rigo 7 al rigo10.
Periodo: 1949
Si riporta integralmente:
Anche stavolta l’artista riuscì nel suo intento affiancandosi a un altro architetto napoletano, l’amico Vincenzo Perna che dal 1949 al ’74, commissionerà…
Si parla di Peppe Macedonio come di un mero opportunista e approfittatore, una specie di pittima della ceramica, mentre era un uomo apprezzato per la sua preparazione ed esperienza senza ostentazione, dolcissimo, colto.
Un’altra affermazione quindi di pura cattiveria sottile, che certamente mette in cattiva luce questa figura, …riusciva nel suo intendo… frase che sarebbe passata inosservata ai più, mentre è proprio grave.
Ora si dà inizio al balletto del tempo.
Dal ’54, siamo ritornati nel ’49, sicuro che il lettore si sia accorto dell’andirivieni di date, passate e future cui si rende necessaria per tentare di comprendere la cronologia degli eventi, con un continuo rincorrere sfogliare e cercare di ricostruire le sequenze formulate senza una corretta esposizione dei tempi.
L’amico…”. Nella premessa ho già espresso chiaramente il mio dissenso per questo termine inopportuno e fuori luogo, forse di abitudine da parte degli “scribi” o dei loro relatori e comunque continuamente presente nella loro lingua parlata che potrebbe far riferimento facilmente a un amico, a un parente o a un loro pari.
La mia prozia Nanà, zia di mamma, mi narrava spesso di un avvenimento sconvolgente, un fatto di “sangue” a cavallo di secolo: l’uccisione di un camorrista, soprannominato “Coppola Rossa”.
Il responsabile dell’efferato delitto fu un “solachianiello” che aveva la bancarella ai Cristallini (antico quartiere residenza della nobiltà Spagnola). Nell’informare del suo gesto e per far giungere la notizia a chi compete, gridando il proprio mestiere, terminava dicendo: “ … e l’amico dorme ancora”.
Finché la polizia incuriosita da questa frase, lo prelevò finendo così per scoprire il delittuoso crimine.
Dunque, la parola “amico”, spesso si riferisce a persone opposte all’amicizia, in senso dispregiativo.
Comunque sia, quando si parla di un personaggio di valore storico e culturale, non ci si riferisce come a un pari, mancando di quel minimo senso etico e di rispetto.

Pag. 128; dal rigo 23 al rigo29.
Periodo: dal1950 al 1986.
Si riporta integralmente:
Altre scene di vita popolare vomerese le ritroviamo in due pavimenti raffiguranti donne che fanno il bucato e scene di bambini che giocano tra le strade del mercatino di Antignano, quest’ultima eseguito insieme con i figli.
Da tempo immemorabile, certamente precedente alla Società dei “I Due Fornaciari”, il Maestro Macedonio aveva usato come studio laboratorio l’appartamento al numero 91,  di via Case Puntellate, proprio dietro l’ingresso del ricovero posto nel cortile.
Stesso appartamento che una volta sciolta la Società, se si ricorda, servì anche come momentaneo rifugio di fortuna per i giovani sposi, che divenne permanente e per il resto della vita.
Essendo quindi una “casa-laboratorio” è ovvio che i figli fossero presenti e osservassero il padre al lavoro, durante l’esecuzione delle opere. Com’è stato interessante scoprire cosa si scrive quando non si sa cosa scrivere!
Nessuno può neanche immaginare cosa significasse il solo camminare nella casa-laboratorio, quando c’era in esecuzione un lavoro! Specialmente se si trattavano di lavori per l’architettura, spesso dalle dimensioni smisurate.
Occupavano per intero la camera all’ingresso e per raggiungere il resto delle stanze si doveva camminare su delle tavole poste su mattoni, in equilibrio precario, disposte in senso longitudinale e trasversale, chiamato “ponte”.
Questo sistema agevolava molto il lavoro del Maestro ma obbligava la famiglia e i frequentatori della casa a dure prove di equilibrismo.
Di certo un allenamento, affrontato però sempre con spirito di avventura.
Appunto personale: Mi è umanamente impossibile continuare a leggere di cose slegate dalla realtà, di commenti e spiegazioni partoriti dalla superficialità, frutti di un menefreghismo storico dove le parole non hanno valore, con il solo intento di far mostra di sé.
In considerazione che gli errori presenti sono tanti e il costrutto è poco, salto al capitolo successivo, risparmiandomi ulteriori dispiaceri.
In merito all’ingresso, mi piace ricordare la presenza di un bellissimo camino realizzato sempre da mio padre, in cui furono bruciati i mobili di chi nel palazzo se ne liberava, senza badare al loro valore.
In questo modo si calcolò che andarono in fumo mobili del’700 e  dell’’800. Peppe Macedonio, in un momento di vago socialismo, bruciò i documenti araldici che attestavano in linea di successione, l’appartenenza al principato.

Pag. 127; dal rigo 10 al rigo 22.
Periodo: 1955
Si riporta integralmente:
nell’ingresso di un edificio in via Cimarosa, costruito dall’Ing., Ernesto Di Palma tra il 1955 e il 1956 troviamo un grande pannello raffigurante la famiglia con uno straordinario volto di bambina dal lungo collo affusolato dove la ricerca di un ideale di bellezza femminile coniuga stavolta alla poetica cubista la ritrattistica di Modigliani in molti volti scolpiti dal ceramista è possibile scorgere i tratti somatici dello stesso autore, di sua moglie Pina Garofalo e dei suoi tre figli, Eugenio Serenella e Roberto.
Queste poche righe, sono l’apoteosi dell’inconcludenza di quanto questi scribacchini hanno finora scritto.
Decifriamo una cosa per volta.
…un grande pannello raffigurante la famiglia…, non rappresenta la famiglia, altra affermazione frutto di un sapere soggettivo e per nulla pertinente.
Per ridare dignità all’opera esporrò i fatti che ispirarono il Maestro al componimento.
La forma dell’andamento della scala, per il Maestro, è la rappresentazione grafica ed espressione dello sviluppo della vita dell’uomo, rispetto agli strati sociali e non solo.  
Infatti, è ben evidente la presenza di un “povero”, ritratto nello scalino più basso, nel servile atto di elemosinare, mentre sullo scalino più in alto, s’incontrano figure che esprimono felicità, non necessariamente legate all’immagine della famiglia, rappresentando un incontro felice, un momento casuale adatto a esprimere il concetto (quando si osserva un’opera d’arte bisogna anche saperlo fare).
Al centro (secondo scalino), sono rappresentate due giovinette sparute, grigie e smunte che in una diversa pubblicazione mi premurerò di estrapolarne il significato.
La rappresentazione d’insieme permette all’osservatore di capire che le persone, pur essendo biologicamente uguali, sono entità singole, ugualmente protese verso un comune obiettivo:l’egoistico benessere, non accettando la propria condizione, qualunque essa sia.
Questa valutazione è resa ancora più evidente dall’aver  rappresentato le contradizioni in termini (primo e ultimo scalino), chiarificatrici nei personaggi atto a suscitare, nell‘osservatore attento, profondi interrogativi.
… poetica cubista… gli scrittori si esprimono con virtuosismi da “lap dance”, in cui le ballerine, oltre ad esprimersi con il linguaggio del corpo, per provocare il risveglio dei sensi, recitano poesie classiche o brani Shakespeariani…
…la ritrattistica di Modigliani…, è cosa assai distante dal concetto di arte in senso generico; chi cerca di imporre tali menzogne, non ha la struttura né le competenze per proporre simili affermazioni. Ne sanno qualcosa i bambini che guardando le nuvole, pare loro di scorgere figure di altra natura.
… volti scolpiti… la mancanza di competenza è talmente evidente dall’ indugiare sul verbo “scolpire”, ciò che in realtà è solo modellato.
…è possibile scorgere i tratti somatici… omissis … dei suoi tre figli, Eugenio Serenella e Roberto. In questo l’artista Peppe Macedonio, supera se stesso, ritraendo nell’opera la sua intera famiglia, i suoi figli; chi ha autorizzato che fosse scritta una simile cavolata? Sono veramente cose di suo pugno? Il fatto è talmente strabiliante e gli interrogativi inimmaginabili dal lasciarmi attonito, figuriamoci il lettore, nell’apprendere che in quest’opera d’arte, terminata nel 1955, il Maestro Peppe Macedonio ritrae suo figlio Roberto, nato a Maggio del 1962, ben sette anni dopo!!!
Si necessita ulteriore commento?
Tuttavia l’assurdità della situazione ha avuto il suo apice quando, facendo notare agli scrittori di aver omesso di citare per intero la famiglia Macedonio, nello specifico i figli tuttora in vita, ebbero il barbaro coraggio di farmi notare che tale mia richiesta trovava risposta nella descrizione di quest’opera. Pur di non ammettere la loro deficienza, hanno tirato in ballo un’opera che più delle altre palesa la loro “ricerca sui generis”(si riporta al valore aggiunto).

6.La sperimentazione tra gli anni Sessanta e Settanta.

Ripetizione su ripetizione.
Il maestro è sempre paragonato a persone o a cose diverse.
Il periodo trattato, 1956-’75, ripetitivo, lungo e inutile con descrizioni superflue, aggrovigliate ed elementari che, miscelate ad altre, coinvolgono Macedonio, non spiegano o chiariscono il come, il perché e il quando di un determinato periodo storico.
In questo calderone in cui bollono fatti, nomi e date, di tanto in tanto dal pentolone emergono inesattezze più gravi di altre, cui non si dovrebbe transigere ma che preferisco glissare perché talmente palesi da rischiare di ripetermi.
Se mi fosse stata concessa la possibilità di leggere prima di pubblicare sarebbe stato tutto da riscrivere!
Forse è proprio per questo che mi si è impedito…

Pag. 162; dal rigo 1 a fine pagina.
Periodo: 1955
Si riporta integralmente:
Dal 1956 Macedonio e sua moglie Pina Garofalo insegnarono rispettivamente ceramica e disegno presso il Centro Sperimentale Ceramica Artistica nell’acquario tropicale della mostra d’Oltremare e del lavoro italiano nel mondo… omissis …Il centro promosso dall’Ente Regionale per lo Sviluppo dell’Istruzione Professionale e l’Assistenza Sociale dell’Artigianato (ERSIPASA), coglieva l’eredità dell’Istituto sperimentale della ceramica sorto a Milano nel 1938. All’artista fu affidato l’incarico di ricerche nell’ambito del colore…
Inutili e pretenziosi dilungamenti, senza una precisa filologia.
Le vicende di questo periodo furono molto complesse e legate ad avvenimenti diversi ma correlati tra loro che portarono profondi cambiamenti nel pensiero del Maestro, così intensi da modificarne la filosofia di vita.
Di questo neanche un accenno.
Si scrive di eventi aleatori e di diversa natura ma non pertinenti con la vita e il lavoro del Maestro (si veda pag.165 rigo 4-5) Sono citati altri artisti di discipline diverse che nulla hanno a che vedere con Macedonio e che per volontà di qualcuno hanno qui modo di avere luce. Andrò ora a narrare degli eventi che chiariranno la mia affermazione e di fatti sconosciuti a chi non della mia famiglia.
Già al tempo della realizzazione della fontana dell’ Esedra, le commissioni di privati e le richieste per realizzare opere per l’architettura iniziarono a diminuire.
Il Maestro eseguiva opere molto impegnative che per l’esecuzione richiedevano anche mesi d’intenso lavoro; per questa ragione, in un anno, realizzava poche opere.
Le zie (lo ricordo, abitavano al primo piano, al numero 37) offrivano da sempre un valido aiuto alla famigliola che uniti da un sentimento d’amore tangibile, cercavano di far fronte alle nuove problematiche quotidiane, come meglio si poteva, recuperando lo stile di vita austero vissuto dal Maestro in tenera età e da altri milioni di persone, durante la guerra.
Accantoniamo per un momento questo racconto per affrontarne un altro.
Nel ’55, per molti considerata un’epoca d’oro, per la facilità di “muovere denaro” e in cui chi “sapeva farci”, riusciva a trarre benefici o vantaggi da speculazioni e affari di ogni genere.
Il capitano Aldo Stella, lo ricorderete, perso di vista anni addietro, non se la passava tanto bene, così come altri ceramisti.
L’ultima volta che lo vidi (nel ’51) aveva uno studio a Materdei, al primo piano di un bel palazzone, proprio su quella strada che porta al “cimitero delle Fontanelle”.
Lì aveva organizzato una fabbrica di ceramica, per la produzione di tazzine, tazze, tazzoni, brocche da acqua e da vino; il tutto dai magri guadagni. (la plastica iniziava a prenderne il posto).
Per il funzionamento del forno, cercando di risparmiare, utilizzava l’energia elettrica del vicino lampione stradale, proprio all’altezza del balcone. Due fili scoperti e uncinati, legati a due spezzoni di canna erano agganciati nottetempo alle due polarità del fanale da strada e il gioco era fatto.
Una coperta da “cavallo”, residuato bellico, e qualche lenzuolo, celavano la furberia, nascondendo un’eventuale visione dei fili.
A lavoro ultimato, si ritiravano i fili posticci e si ripiegavano i panni e si sfornava il forno.
Insomma il poverino viveva di espedienti.
Sfruttando le conoscenze di un tempo nell’ambito degli Enti preposti per la ceramica, cercò di uscire da questa misera situazione. Un tempo considerato monumento ambulante.
Il Presidente dell’Artigianato di Napoli, Luigi Gallina, suo conoscente, persona della stessa pasta, ascoltò le sue proposte e intuendone le potenzialità economiche, appoggiò un progetto, mettendosi all’opera.
Il punto di partenza fu il voler riesumare un centro milanese per le ricerche ceramiche, fondato nel ’38, per una continuità di concetto, in cui fosse sviluppata un’idea di partenza.
Fatto raccontato dallo stesso Stella qualche tempo dopo, anche se con più ricchezza di particolari.
Dove realizzarlo?
Venne loro in mente che dal 1940 la Mostra d’Oltremare era in totale stato di abbandono e che sarebbe stato il luogo più idoneo per realizzare un centro sperimentale.
Fu presentata formale richiesta all’Ente Mostra.
Non da una persona qualsiasi, ma dal Presidente dell’Artigianato di Napoli e magicamente tutte le porte furono spalancate e le strade appianate. In quattro e quattr’otto poi, ottennero i fondi necessari per la realizzazione.
Egli, il Dott. Gallina da buon Napoletano d’importazione, era molto scaramantico, a tal punto che quando dovette decidere per un usciere personale, facendo un’apparente “opera pia”, ne assunse uno con la gobba.
Tutte le mattine, entrando in ufficio in via de Pretis, gli carezzava la gobba per scaramanzia e solo dopo dava inizio al lavoro.
Luigi Gallina divenne il Presidente responsabile del progetto, mentre Aldo Stella divenne il Direttore responsabile del centro.
Ora occorrevano gli insegnanti e nell’attesa che l’edificio scelto fosse arredato, furono consultati i possibili maestri, tra cui Peppe Macedonio già da tempo Presidente dei ceramisti artigiani napoletani.
Qui ci ricolleghiamo con il racconto della precedente storia familiare e delle difficoltà economiche di famiglia.
Il Gallina convinse il restio Peppe Macedonio ad accettare l’incarico, almeno per un solo mandato (divennero quasi due), e pur di averlo gli rese più gradevole la proposta, assumendo anche la moglie Pina come insegnante di disegno dal vero.
Una proposta che, come per molte cose, sembrava allettante ma si dimostrò disastrosa.
Macedonio dovette fare di necessità virtù, dimenticare di essere uno spirito libero, per il bene della famiglia e subire l’incarico.
Questa fu la sua più grande rinuncia.
Lo spirito libero aveva ceduto di fronte alle necessità della vita reale; fu costretto a modificare per sempre il suo modo di pensare, assumendosi responsabilità diverse.
Furono gli anni più brutti della nostra vita, di tutti, zie comprese, ma ammantati da un grandissimo senso di amore familiare.
Mia sorella era con le zie, il sottoscritto, dopo la scuola, raggiungeva i genitori al “centro” e tutti si viveva subendo i ritmi di un contratto che prevedeva un impegno giornaliero i cui orari, per forza maggiore, correvano dalle otto e trenta alle diciassette a volte anche diciannove, anche in estate.
L’etica di quel tempo, forse per quanti avevano sopportato la miseria della guerra, era encomiabile.
Erano lì sempre a fare il proprio dovere, in virtù per la parola “data”.
Un grande esempio etico di comportamento.
I coniugi ricevevano una retribuzione mensile neanche bastevole per la sopravvivenza di una persona.
Per la cronaca, ricordo perfettamente gli statini paga che firmavano, incassando somme notevolmente inferiori a quanto riportava il cedolino mensile e non bastevoli per una famiglia, come si può arguire senza scendere in particolari.
E così la sera, si continuava a cenare con le zie che diligentemente preparavano la cena.
Il pensiero del Maestro, e la sua umanità serafica e gentile, fece si che, in poco tempo gli allievi dei “corsi”, anch’essi appartenenti a povere famiglie disadattate, fossero come parte di una grande famiglia.
Gallina, metteva da parte quanto risparmiato dalle paghe e dai fondi per le attrezzature e materie prime destinate al centro.  
Aldo Stella, direttore di cartone, di un centro riesumato da una convenzione fascista milanese del ‘36, gli dava da vivere, in disparte, oramai decrepito, senza mai uscire dalle sue camere con bagno del centro sperimentale, in cui viveva un’esistenza grama e solitaria, finché un bel giorno morì.
la direzione del centro dalle sue mani passò direttamente nelle mani di uno dei figli di Gallina, mantenendo così inalterata l’egemonia economica, fino alla sua chiusura.
Era l’autunno del ’59, ma non ci giurerei.
Per precisazione storica, della retribuzione per il lavoro d’insegnanti svolto dal maestro e da mia madre, era stato quietanzato meno del quaranta per cento di quanto riportato sul cedolino, alla voce stipendio, versando zero lire delle ritenute assistenziali per la pensione. Impedendo tutti di fruire del sostentamento per la vecchiaia.
Altri insegnanti reclutati, avevano un diverso lavoro, pertanto erano ben felici di guadagnare qualcosa in nero, mentre Macedonio e signora, no!
Soltanto un giovane collega, riottenne quanto non dato, in economia e punteggio per gli anni d’insegnamento, facendo causa ai Gallina attraverso la camera del lavoro.
Posso oggi chiarire queste cose senza offendere la memoria dei miei genitori.
I soldi accumulati da Stella, finirono nelle mani di una bella e brava ragazza, certa Maria Lambiase, ex guantaia, conosciuta allo studio di Materdei e assunta come “bidella” ma che in realtà, avrebbe dovuto svolgeva mansioni più delicate.
In questo frangente disastroso, dalle mani del Maestro nacque il meraviglioso pannello aereo della palazzina ai Ponti rossi, lì creato e cotto.  
Spiegato a pag 43 di questo volume, ivi riportato per datazione errata.
Riporto al catalogo per la Pag 55, rigo 1-5 periodo 1958-’59.
Naturalmente ho dovuto stringere molto, evitando di narrare particolari inutili alla correzione, ma questo è bastevole a far comprendere la sostanziale differenza che la rende circostanziata.
Pag. 164; dal rigo 9 al rigo12.
Periodo: 1970-’75. fuori periodo.
Si riporta integralmente:
Tra gli anni 1970 ’75 Macedonio eseguì dei modelli per una produzione seriale in porcellana per la Dita Mollica a Napoli e numerosi pannelli per la Ditta Visconti Mollica in via Nuova Capodimonte.
Spostamenti nel tempo che non fanno comprendere il perché e la forza di voler lavorare nell’arte nonostante il travaglio esistenziale.
Avessero almeno avuto l’accortezza di tener conto della cronologia!

Pag. 165; dal rigo 31 al rigo38.
Periodo: 1961
Si riporta integralmente:
L’informale è vissuto dall’artista come un momento di rottura con il suo tipico espressionismo figurativo e di conquista della piena libertà di espressione, infatti, con L’esperienza del Centro Sperimentale Ceramica Artistica e l’influenza delle poetiche informali si apre per Macedonio una nuova e straordinaria fase creativa.
Non si comprende cosa voglia intendere.
Era il 1960 quando si paventava la chiusura del Centro.
Tutti allora cercarono una via di uscita presso altre strutture.
La “voce” si sparse e anche Macedonio, a dire il vero, ricevette allettante proposte alternative da Enti e Scuole di Stato.
La più insistente giunse dall’Istituto d’Arte per la Porcellana di Capodimonte, sito nel lato boschivo dell’omonima Reggia.
Proposta, ricevuta più volte negli anni, ma che Macedonio, testardo, non accettò mai temendo di finire in una trappola o vivere la stessa esperienza negativa, verificata quando lavorava per il Centro: poca paga e fine trattamento zero.
Accettò invece l’insegnamento presso l’Istituto Statale d’Arte di Avellino, partendo giornalmente dal Vomero.
Sempre con il sorriso sulle labbra, mai nervoso, mai angustiato.
Questo evento portò in casa una ventata di danaro che si trasformarono in piacere e gioia per tutti.
Egli stesso si meravigliava di come quel “poco” ma fisso mensile, permetteva di vivere dignitosamente. Certo, la ceramica, era tutt’altra cosa e offriva guadagni maggiori, ma non si costruiva quasi più...
La frase di cui si scrive malamente, ... si apre per Macedonio una nuova e straordinaria fase creativa, forse vuole lasciare intendere senza riuscirci, che il Maestro liberato da quelle miserie terrene che lo soffocavano, raggiungendo una nuova primavera, adatta a volare molto più in alto, con la consapevolezza della maturità sopraggiunta e con un figlio piccolo da crescere, nel frattempo e qui non è riportato nacque mio fratello Roberto.
l’ultimo dei suoi tre figli (il 14 maggio1962).
Il testo prosegue con uno sproloquio inutile e fuorviante che non sto qui neanche a commentare.  

Pag. 171; dal rigo 7 al rigo14.
Periodo: 1967
Si riporta integralmente:
Non potevano mancare i temi cari all’artista, il mondo dei contadini con scene di vendemmia, raccolte, potature, innesti e tosature di pecore, e il mondo dei lavoratori, con un’originale rielaborazione, in chiave femminista dello schema comparativo del quarto stato del pittore….
Frase totalmente criptica.
Incomprensibile, forse per la mancanza o l’abbondanza di segni di punteggiatura o accenti, oppure proprio perché è scritto male.
Un nuovo paragone è presente sul cammino del Maestro: questa volta prende spunto e rielabora una pittura piemontese…
Ma mi facciano il piacere! A loro e a chi glielo ha fatto scrivere…!
Fin da quando il genere umano è divenuto stanziale le donne hanno assunto il compito della “terra”, mentre l’uomo quello della “caccia”.
Per secoli questi ruoli sono rimasti inalterati, affermazione presente addirittura nel libro di terza elementare di mia figlia Barbara, ma a quanto leggo, rimangono concetti troppo elevati, sconosciuti agli “scrittori”.
Di questa realtà storica gli scrivani ne danno rilettura fantasiosa e politica, addirittura femminista. Per favore, ridono anche i polli…
C’è da aggiungere che chi ha suggerito questo insulso paragone non ha conosciuto il Maestro; se, però ha avuto la fortuna di conoscerlo doveva per forza sapere che quando Peppe chiariva un concetto complesso utilizzando la storia, iniziava sempre con l’esporre il pensiero dei Babilonesi, (Mesopotamia, culla della civiltà), traendo lì le radici per poi giungere al concetto preso in esame, offrendo sempre, nei discorsi come nelle opere, profonde basi d’appoggio e non inneggi e vagheggiamenti imbelli.
Pag. 171; dal rigo 19 al rigo23.
Periodo: 1967
Si riporta integralmente:
Negli androni dei quattro palazzi vi è una serie di originalissimi manufatti che testimoniano la continua voglia di mettersi in gioco del grande scultore maiolicaro.
Frase dal significato ambiguo incomprensibile, offensivo.
Il maestro Macedonio non era uno sportivo, non praticava professioni al limite dell’impossibile. Presupposto che rende fuorviante la scelta di espressione, la quale non chiarisce in che modo si mettesse in gioco e per quale ragione. A cosa potrebbe servire un Macedonio contro se stesso.
È tale la limitatezza lessicale e culturale da non rendersi conto che in questo modo, invece di celebrare, avvalorare, ricordare, si continua a screditare, calunniare il lavoro del Maestro e la sua immagine.
Quanto è scritto, è una frase oltraggiosa e diffamante, in maniera superlativa.
In età adulta, quando la mia personale cultura l’ha permesso, ho sempre paragonato il Maestro a Gandhi (Gandhi, Mohandas Karamchand "Mahatma" Porbaudar 1869 - Nuova Delhi 1948); Peppe Macedonio, infatti, era ammantato di calma esteriore a celare il pensiero granitico, in cui il valore delle azioni era dato dalla fermezza delle sue convinzioni.
Portando a termine ciò che si era prefisso.
Mettersi in gioco, significa accettare o offrire una sfida, paragonarsi a qualcuno nel tentativo di superarlo, a chi avrebbe dovuto paragonarsi. Stupidi!

Pag. 171; dal rigo 41 al rigo45.
Periodo: 1967
Si riporta integralmente:
La ceramica d’arte di Macedonio è in continuo rapporto dialettico con le avanguardie artistiche, le correnti primitivistiche e soprattutto con l’immaginario medioevale, quest’ultimo tradotto con gli occhi dell’artista contemporaneo.
Si pregano i lettori di non ridere. L’elenco degli stili attribuiti e utilizzati dal Maestro sono lungi da avere termine…

Pag. 25; dal rigo 49al rigo53.
Periodo: 1970
Si riporta integralmente:
il centauro, firmato e datato “G. Macedonio 1970”, presenta una raffinata policromia a dominante rame, un’elegante fierezza e una muscolatura scuoiata che ricorda le inquietanti e misteriose creature di Augusto Perez.
Nessun commento umano è possibile, sarebbe il caso di un intervento divino o una colletta terrena per un corso di lingua italiana accelerata per gli autori di queste frasi.
Anche qui si paragona l’opera a qualcos’altro, in questo caso a un’opera di Augusto Perez, antico frequentatore di casa Macedonio, insieme alla moglie Sisina e al figlio dal vivacissimo carattere, allora ancora piccolo.
Ho personalmente avuto piacere indugiare su questi ricordi, ma per il resto…

Pag. 176; dal rigo 24 al rigo29.
Periodo: 1906 1986.
Si riporta integralmente:
…Troviamo un grande pannello con attori in costume, eseguito a forte rilievo in maiolica monocroma patinata, che ricorda per stile e impianto frontale bizantino i pannelli dell’edificio di via …
Non importa cosa sia, chi siano gli attori, sono solo fantasiose farneticazioni del momento, in cui forse per contratto, non si sa, ogni opera del Maestro deve somigliare a qualcosa e se ciò non bastasse, se proprio non vi fosse alcuna possibilità, senza disperarsi lo si fa assomigliare anche a se stesso.
Come evidenziato in altre opere.
Poi si scrive del “forte rilievo”, possiamo immaginare sia un rilievo pepato, un particolare tipo di “casatiello imbottonato”, poiché in lingua italiana, e nel modo più elementare, questo tipo di realizzazione si definisce, con molta semplicità: altorilievo.

Pag. 177; terz’ultimo rigo
Periodo: 1975
Si riporta integralmente:
.. pipe romane figurate,…
Qui si è raggiunta l’apoteosi del paradosso infamante!
Sono trasalito per l’inquietante rivelazione storica, stupefacente, ancora ignota ai più, soffermandomi più su quest’affermazione che su Peppe Macedonio.
Non si evince, però quale popolo navigatore abbia raggiunto le Americhe e abbia portato il tabacco ai Romani che, buon per loro, iniziarono a fumare già dalla più tenera età (gli “scrittori” non hanno avuto il tempo di fare paragoni e così mi permetterò di farne uno io: “i Romani fumavano come  Turchi”!).
Non scherziamo da quanto affermato, si evince che nella Roma Imperiale circolava il tabacco, molto tempo prima che fosse scoperto da C. Colombo nelle Americhe e che i romani lo fumassero in bellissime pipe di creta molto decorate.
Negli anni ’70, il Maestro prendendo spunto dalla storia, da questa storia, realizza copie delle famose “pipe romane”.
Oltre a copione ora gli si attribuisce anche l’appellativo d’ignorante!
Affermo e garantisco che tali oggetti esistono solo nella fantasia degli scribacchini... o anche in qualche alternativa “fonti certe”?

Pag. 180; dal rigo 1 al rigo 6.
Periodo: 1946-’86, si presume .
Si riporta integralmente:
Il giardino di Antignano divenne il laboratorio segreto di Macedonio, dove poter sperimentare le più svariate forme e colori, un luogo magico rievocato dalle suggestive parole di G, Borrelli “ qui il Macedonio opera all’ombra della pergola antica”….
…Antignano… Ho da offrire una spiegazione “topica, geografica, e storica” definitiva.
La casa dei Macedonio, per giusta regola, si trova in via Case Puntellate.
Il palazzo di Mele, già ingresso alla fattoria dei Pezzalonga, nel 1925 fu ampliato in altezza e in larghezza da un ingegnere che, poverino, morì in manicomio.
Fu il luogo di residenza dello studio Macedonio, il cui territorio faceva parte dei possedimenti della Marchesa di Casepuntellate, ereditati dal prozio, da parte di madre.
Un antenato del prozio, infatti, un oscuro nobiluomo napoletano, durante la presa di Napoli da parte di Carlos de Borbón, futuro Carlo III di Spagna, appoggiò il suo insediamento e per questo fu ampiamente ricompensato. Divenuto Re, di Napoli con il nome di Carlo VII e dopo aver ereditato il ducato di Parma, dalla madre Elisabetta Farnese, volle ringraziare quanti, fedelissimi, contribuirono alla riuscita della conquista.  Ciò accadeva due anni dopo quest’evento. Precisamente nel 1736, quando finiti di espletare i doverosi protocolli, Carlos de Borbón, alias Carlo VII, futuro Carlo III di Spagna,  ripagò l’avo del prozio, con il titolo di Marchese e una estensione di terra, per servigi resi. Molte case di quel luogo erano squinternate fattorie e da qui il titolo: Marchese di Casepuntellate.
Zona che corre Precisamente dai Verdolini (oggi Pigna), fino ad Avanti Agnano, poi trasformato in Antignano: ultimo baluardo e stazione di cambio dei cavalli prima di discendere verso i Campi Flegrei e poi Agnano, luogo di antiche e rinomate stazioni termali.
Tale proprietà giunse infine alla Marchesa di Casepuntellate poi nel 1861, anno successivo all’unità, fu assorbito come territorio della Repubblica Italiana, perdendo la proprietà nobiliare ma conservandone il nome nella strada.
Per questa ragione si considera zona non facente parte di Antignano ma solo limitrofa a essa.
Tutto questo, dalle memorie del Marchese Pertica, fatte direttamente al Maestro nel 1942’43, mentre arrostiva i suoi ortaggi sulla forgia da ceramica de I Due Fornaciari, confermati dalla figlia, la Marchesina Pertica “Ninì” e raccontati alla mia persona negli anni ‘60.
Il secondo “inciucio” è …Il laboratorio segreto di Macedonio… un’altra gigantesca bufala senza latte.
Fin da prima del ’38, Macedonio utilizzava il luogo citato come laboratorio.
Fu sede ufficiale dei “Due Fornaciari”, li rimasero per tutto il periodo della guerra, lì s’iniziò la produzione dei “tazzoni” per la Red Cross, fino un anno dopo la nascita di Eugenio, lì si trasferì l’intera famiglia.
Poi divenne casa e laboratorio insieme, fino all’86.
Punto d’incontro dei nomi più altisonanti della cultura non solo Partenopea, ritrovo delle menti geniali del mondo dell’arte. Improvvisamente! Dopo anni di uso, il giardino diviene: “poof”, magicamente, un luogo segreto, sconosciuto.
Anche qui, la frase di Totò è doverosa: “Ma mi faccia il piacere!” Sospetto che chi scrive abbia rielaborato dei concetti savi, stravolgendone il senso.
L’andirivieni era così intenso che la porta d’ingresso non era mai chiusa! Anzi sembrerà strano ma fino all’’80 non vi era neanche la serratura.
I frequentatori della casa-laboratorio del Maestro, sanno bene che egli non ha mai nascosto o pensato di nascondere il suo operato, anzi, a coloro che glielo chiedevano, descriveva nei minimi dettagli ogni fase del suo lavoro, finanche le sperimentazioni più personali, con una pazienza che solo le persone illuminate possiedono e che oggi nessun altro, pur conoscendone le tecniche, dovrebbe arrogarsi il diritto di divulgare.
Peppe Macedonio era cosciente di una realtà fondamentale: se anche avessero copiato, il prodotto sarebbe stato copia, mai però si sarebbe potuto imitare il suo modo di fare, la sua tecnica.
Egli era convinto che, ogni espressione palesata attraverso le proprie sensibilità, tenda a trasmettere filosofie legate solo a se stesse.

Pag. 180; dal rigo 15 al rigo20.
Periodo: indefinito 1950-’51.
Si riporta integralmente:
il laboratorio di Antignano poteva contare su ben quattro forni il forno grande a combustione rimasto attivo fino al 1950-’51, e tre elettrici con resistori e in refrattario, ideali ad una cottura ad atmosfera neutra,
Non ripeto la storia di Antignano.
Quando si scrive bisognerebbe conoscere profondamente il valore e i significati delle parole, tanto per dire.
Sono qui riportate informazioni tecniche non corrette.
I forni erano otto, tutti costruiti dal Maestro in tempi diversi.
In origine c’era una vecchia fornace a legna, nell’angolo in fondo al giardino, poi demolito. Ho una foto in cui sono con mio padre proprio su queste rovine.
Nel dopoguerra, fu costruito un forno elettrico nella prima stanza entrando sulla destra e un altro nell’ingresso. Allora l’energia elettrica era distribuita dall’ENEL con un voltaggio di sicurezza di 125 Volt e non 220 Volt come in appresso.
Il basso amperaggio quindi causava non poche difficoltà alla cottura.
Smontati i due forni elettrici, nel ’47, per fare spazio alla famiglia, furono poi rimontati nella seconda stanza, sulla destra ai due lati della finestra, ove permasero attivi per lunghissimi anni. Anni dopo, con l’avvento dell’energia a 220v, si dovettero modificare le resistenze di acciaio al nichel-cromo, cosa che il Maestro eseguì personalmente.
Nel ’51, in giardino, nello stesso punto dov’era il precedente forno a legna, egli né edificò un altro del tutto simile.
Era un forno gigantesco di 4 mt di altezza, tutto in mattoni rossi ( detti di “Santa Maria”, da Santamaria Capua Vetere), forno che lavorò egregiamente fino al 16 febbraio del ’53, (data ricavata dai precisi ricordi del Maestro).
il Maestro, quella sera aveva un inderogabile impegno di lavoro, lasciò il fornaciaio alla cottura, assentandosi per poche ore.
Il fornaciaio forse indispettito per essere rimasto solo, andò via lasciando così la fornace incustodita.
 Questo avrebbe significato perdere la cottura e per evitare questa sciagurata eventualità, la moglie Pina al settimo mese di gravidanza di mia sorella Lucia, rimasta in casa sola con il piccolo Eugenio, il sottoscritto è il caso di dire, lei eroicamente ne continuò la cottura. Continuò ad alimentare il forno in un inferno di calore e fatica.
Stoicamente doveva trascinare i tronchi dal peso e dimensioni non indifferenti, nelle adiacenze della bocca della fornace, per poi prenderli in braccio, compiere un movimento rotatorio del busto rapido e violento per scagliare i tronchi nel fuoco, con precisione.
La bocca infuocata era avida ed esigente; non si trattava né di un lavoro semplice né leggero.
Al ritorno, il Maestro Macedonio decise di demolirlo.
Possiedo ancora alcuni dei sostegni di creta utilizzati proprio per la cottura in quel forno, piccole colonnine d’incastellatura, adatte a sorreggere le opere da cuocere, ferme nella giusta posizione.
Ritornando ai forni, Intorno agli anni ‘60 fu costruito un altro forno elettrico in giardino, sotto una pensilina laboratorio, al riparo delle intemperie, fornace di circa 3\4 di metro cubo, utilizzato per particolari cotture.
Vi furono una serie di piccoli forni per prove, costruiti nei fusti dell’olio da 5 Lt, trasportati ovunque in casa o fuori secondo la stagione.
L’ultimo forno elettrico, fu costruito’nell’83, sempre e solo dalle mani del Maestro, nello studio che il figlio primogenito Eugenio mise a sua completa disposizione.

Pag. 180; rigo 32.
Periodo: indefinito
Si riporta integralmente:
il nostro artista artigiano…
La parola: “nostro”, rivolta al Maestro è, offensiva e irriverente, non posso commentare questa grave mancanza di rispetto.
Pag. 181; rigo 18.
Periodo:
Si riporta integralmente:
Fu proprio la Vasaria e le sculture….
Per favore qualcuno sa spiegarmi cosa sia la vasaria…? E le sculture di chi? In considerazione del fatto che Macedonio modellava e non ha mai scolpito.

Pag. 181; dal rigo 30 al rigo33
Periodo:1975
Si riporta integralmente:
Tra la metà degli anni Sessanta e Settanta Macedonio si avvicina alle arti figurative sarde, dimostrando ancora una volta fantasia espressiva.
Se doveste avere un calo di fantasia espressiva, non preoccupatevi, i romanzieri del volume male assortito, ci tramandano una “ricetta” specifica per tale carenza.
Basta avvicinarsi alle arti figurative Sarde e senza neanche bisogno di toccarle ci si “ricarica”.
La Sardegna poi, è solo una casualità.
Questa casualità nasce dall’interesse di Macedonio per gli Assiri Babilonesi, le cui opere, sconosciute ai più, a uno sguardo superficiale e disattento, potrebbero essere scambiate per arte figurativa Sarda.
Ci vuole proprio molta fantasia… e tanta cattiva fede, pessime informazioni e un nozionismo involuto, per scrivere ciò.
Qui, infatti, non è questione di fantasia, ma vera e propria mancanza di erudizione sulla vita del Maestro, unita ad abbondanti pessimi consigli, chi li ha elargiti? I soliti ignoti.
Considerata la mancanza d’esperienza degli scribacchini, rimango convinto, per onestà morale che le colpe andrebbero per lo meno suddivise.

Pag. 181; dal rigo 33 al rigo35.
Periodo: 1975
Si riporta integralmente:
Fu totalmente rapito dalle barchette votive popolate da animali e capitanate da divinità.
L’affermazione è veramente fantasiosa, merita di essere analizzata iniziando con il chiederci se possano, le barchette votive o almeno solo le normali, essere mai popolate di animali?
Un interrogativo che gli scribacchini non si sono posti.
Immaginate un bel “gozzo” grande, da pesca o da lavoro, con l’immagine di una divinità, sistemata sulla barca a piacere, tanto da rendere la barca “votiva”.
Tutt’intorno, un prato umido di rugiada che ne ricopre con abbondanza il fondo, in cui si vedono brucare pecore e montoni mentre in lontananza pascolano mucche in tutta libertà.
È la stessa divinità che al timone indissolubilmente la governa.
Questa è la visione descritta e sono convinto che chiunque la legga, senza aver fatto studi di psichiatria, potrà in tutta sicurezza affermare che una frase del genere è da manicomio.
  
Pag. 182; rigo 10.
Periodo: 1975
Si riporta integralmente:
Queste piccole sculture terminali presentano….
Le ceramiche non sono sculture.
È comunque spiacevole leggere che tali oggetti siano terminali, poverini! Quale patologia è stata loro riscontrata…
Ovviamente anche queste opere devono somigliare a qualcosa, vi sembra possibile che non somiglino a niente? Ecco che subito, appaiono terminali... meglio glissare.

Pag. 182; dal rigo 32 al rigo37.
Periodo:1950 1970
Si riporta integralmente:
Per quanto riguarda invece la statuaria tra la metà degli anni cinquanta e i primi degli anni sessanta, Macedonio si avvicinò da un lato alla scultura informale di Giacometti, con figure femminili liquefatte, abbozzate, aliene e filiformi, dall’altro rivisitò in chiave moderna lo stile vietrese degli esordi…
Cose che non stanno né in cielo né in terra e che contraddice quanto dagli scrittori espresso in precedenza. Tuttavia rammento loro che Vietri fu un momento d’abbraccio culturale più adatto a rinfrancare il corpo e lo spirito…. Più ascoltando poesie… come dal riporto stesso ricordato, che per lavoro.
Tale concetto è stato già chiarito e riportato alla pagina 23.
La figura che non si comprende, sono le “figure femminili liquefatte”.
Una incomprensibile licenza poetica.
Siamo in conclusione e in virtù di quanti hanno consigliato di forzare su questo periodo, insistendo nel portare avanti una loro tesi per nulla pertinente alla realtà storica del Maestro, esporrò i fatti nella maniera più comprensibile e per quanti desiderano comprendere.
Fatti che spiegano in modo definitivo la reale collaborazione fra Macedonio e la Ditta fondata dal Melamershon. Su richiesta del Doelker il Maestro fu avvicinato affinché progettasse un tipo di produzione di rapida realizzazione, per saliere e piccoli oggetti, gradevoli e appetibili, rispettandone le ataviche caratteristiche.
Macedonio considerò, prima di ogni altra cosa, di semplificare il lavoro dell’artigiano, velocizzando la lavorazione dell’oggetto con una innovativa tecnica di assemblaggio.
A conferma della genialità del Maestro e della pochezza intellettuale del “catalogo”.
Dopodiché studiò una colorazione a smalto verde (non il vietrese “rame”) che fosse di effetto e di veloce realizzazione, invece delle usuali tecniche che utilizzano pennellature lunghe, laboriose e dai segni visibili, care al decoratore o “Maiolocaro”.
I piccoli oggetti, come saliere o similari, tenuti dall’operaio per la sua maniglietta, nella figura di un pesciolino o ippocampo, erano immersi in un bagno veloce di “smalto verde” e subito sollevati.
Su volontà del richiedente e per le “partite” più esigenti, l’apprendista di turno, decorava i bordi delle coppe con un filo di arancio.
Quindi, se proprio vogliamo puntualizzare e finalmente mettere fine alla serie di falsità in merito alla “esperienza vietrese”, “smerdando” completamente il concetto e chi l’ha introdotto, non fu Macedonio ad apprendere qualcosa dalla ceramica vietrese classica ma fu essa ad attingere alla creatività del Maestro, con una totale sovversione delle tecniche di assemblaggio e di colorazione.
Il Maestro, terminato questo compito e poiché i tempi furono maturi per cose diverse, lasciò per sempre Vietri sul mare e la sua banda spensierata piena di problemi.
Spero di aver fatto abbastanza luce su quegli eventi e comunque disponibile a ulteriori approfondimenti anche se sono certo che, a parte i fautori della teoria vietrese, di questa cosa interessi poco visto l’evidente qualità e particolarità del lavoro ceramico di Peppe Macedonio.
Che cosa sia la statuaria poi, lo sanno tutti: ( boh!).
Potrei immaginarla come fosse una specie di ameba vegetale, pericolosa, da cui si ricava un unguento medicamentoso.
Non è così…?


Pag. 183; dal rigo 10 al rigo13.
Periodo: 1970
Si riporta integralmente:
… con “la caduta” Macedonio da un’originale interpretazione dell’uomo che cade, un tema caro in ambiente scultoreo, come gli inciampi di Rodin e Giacometti,…La Caduta diventa “un’originale interpretazione dell’uomo che cade”; solo che Macedonio aveva modellato una donna, con tanto di seni all’aria. Peccato!
In ambiente scultorio cosa accade non c’interessa.
Ancora paragoni strampalati con artisti mai presi in considerazione dal Maestro.

Pag. 184 a pag 189.
Periodo: generico e confuso.
Quanto contenuto in queste ultime pagine è un’omelia agonizzante, in cui si mescolano ancor più vagamente, fatti, voci, persone, che tentano di parlare di Macedonio attraverso gli scribacchini, si può immaginare di quanto altro sia possibile il parto della umana fantasia.

La conclusione
Altre note e contestazioni al testo:
La biografia è incompleta, manchevole di tanto cui va aggiunto la mancanza della citazione degli eredi.
Altrettanto grave è la mancata dichiarazione in cui s’informa che le opere riportate non sono tutte, ma che altre, moltissime altre, sono presenti in collezioni di privati; alcune delle immagini del catalogo appartengono a opere facenti parte dell’asse ereditario indiviso, (eredi Macedonio), mentre riportano un’indicazione di appartenenza fasulla, non pertinente, denominata “collezione o archivio Lucia Macedonio”.
Questo la legge non lo descrive solo come falso.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi come possa essere accaduto tutto questo di cui all’oscuro, non ho ancora ottenuto soddisfacente risposta.
Sono invece rattristato per mia sorella Lucia che, nutrendo speranze diverse, ha consegnato la memoria di nostro padre in mani rapaci e incapaci, senza ricevere neanche i famosi trenta denari.
Spero gentile lettore di non averla annoiato, purtroppo non ho potuto esimermi dall’affrontare questa doverosa battaglia.

Forse avrei potuto portare a termine in maniera più rigorosa la correzione delle imperfezioni o inesattezze riportate, l’importante è aver reso giustizia alla figura di Peppe Macedonio facendone conoscere il suo pensiero più vero.
Confido in questo documento per la cui stesura ho dovuto rivivere, anno dopo anno, la vita del Maestro, per quanto egli stesso mi ha lasciato di sé e della sua vita, fatto per me di coinvolgenti emozioni ma indispensabile affinché potessi apportare le dovute correzioni..
Molti contavano sul mio silenzio, confidando sull’incapacità di verificarne gli errori… ebbene, costoro rimarranno delusi.
Come nel peggiore degli incubi, ho la visione di queste false versioni scritte, delle affermazioni errate di sapienti fonti “certe”, che raggiungono presto e contro qualsiasi volontà, il futuro.
Già ora il “morbo” viaggia attraverso le memorie elettroniche d’internet, giungendo nel mondo o ai posteri più velocemente della verità che sto cercando di riaffermare, continuando infliggere la figura del Maestro Macedonio.
L’incubo continua e si acuisce: dopo aver “ripulito” l’etere dalle lordure, in un remoto futuro salterà fuori un volume errato, conservato dall’ultimo idiota di questo mondo, a reimbrattare la figura di Peppe Macedonio.  
Le colpe di chi ha scritto in maniera inesperta, vanno però anche divise equamente con quanti hanno ritenuto di aiutare, indirizzare, consigliare, senza essere memoria storica.
Presumendo di esserlo.

Un personale valore aggiunto.
Una tutela suppletiva verso la figura del Maestro.
Fermo proponimento a salvaguardia della memoria del Maestro, è lanciare un vigoroso anatema, (la legge non lo vieta).
La forza che scorre dal ceppo d’origine della nostra famiglia a oggi, ha molto più di mileseicentosessantasei anni,(ultima data certa), è antico e le energie scorrono compatte, in maniera forte, come d’altronde in me medesimo, ancora al di qua della vita.
Unendo tali prorompenti forze in un’indistruttibile catena legata agli avi di ambo i genitori, (la cui sola forza materna è proverbiale), vi sarà abbondante energia.
Certo in un’errata corrige è strano trovare un anatema ma visto che funziona, eccome se funziona, che importa, si potrà chiamare valore aggiunto al volume.
Lancerò quest’esecrazione in cui credo, con quanta forza ha il mio spirito esasperato, generato con tutti i carismi, sostenuto dalla maggior forza situata oltre la vita, affinché tutte le persone che hanno avuto a che fare in maniera maldestra, anche solo genericamente con il pensiero di Macedonio ceramista, distorcendone in qualche modo il concetto, non possano mai più avere “bene”, ne su questa terra tantomeno oltre.
Ed ecco pronto l’anatema, di cui mi si dice che basti leggerlo a mente per attivarlo e più persone lo leggono, tanto più esso evoca forze adatte alla bisogna, rafforzandosi lettura dopo lettura.
Do questo preavviso nel caso si voglia passare oltre, cosciente e responsabile per quanto si accinge a fare.
Ringrazio il lettore per aver autonomamente compiuto questa scelta.
Io Eugenio Macedonio, figlio Primogenito del Maestro Peppe Macedonio e di Giuseppina Garofalo, con la forza e la possanza dello spirito dei miei antenati, tutti evocati e schierati in mio favore, Maledico, Maledico, Maledico per sette generazioni chi, conosciuti o sconosciuti che siano, direttamente o indirettamente, nel bene o nel male, abbiano contribuito a sporcare la figura del massimo ceramista del’900, Peppe Macedonio, in un tempo passato, presente o ancora da venire.
Ognuno di essi, indistintamente, da subito e fino alla settima generazione inclusa, sopporterà una lunga esistenza di amarezze e solo dopo, come liberazione, vi sarà il bruciare nelle fiamme dell’inferno.
Amen.
Le dovute rimostranze o ringraziamenti da parte dei tanti che possono essersi offesi, o che vogliano felicitarsi per questa iniziativa, per favore, lo dicessero alla cara sorella Lucia, che essendo consapevole e responsabile di quanto solo per sua iniziativa ha permesso e concesso, meglio del sottoscritto, saprà rispondere.
                                        Eugenio Macedonio










Breve Biografia di Eugenio Macedonio.

“La vita è come un sorriso di bimbo… fin quando non si riceve uno scapaccione”.

Eugenio Macedonio nasce a Napoli il 14 di Marzo del 1946, a villa Paradiso (Vomero alto), da Giuseppina Garofalo, disegnatrice e Peppe Macedonio, Massimo ceramista del ‘900 italiano e il cui cognome ha, come ceppo d’origine, una delle più antiche famiglie europee.
Eugenio è il primogenito di tre figli, seguito da una sorella, Lucia (avrebbe dovuto chiamarsi “Serena”, ma il pastore celebrante impose di cambiarlo, pena il non battezzarla) e da un fratello, Roberto.
1971 si sposa con Imelde Landini, fin quando, nell’agosto del1978, la perde per sempre in un drammatico incidente stradale, in cui è anche lui coinvolto.
1979 si risposa con Stefania Fusco da cui ha un figlio, Joel.
Si separano, dopo una lunga trafila burocratica e in tempi successivi incontra la persona che sarà la compagna per la vita, Giuseppina Prencipe, grafica artista e con cui dividerà una vita avventurosa.
Avrà due figlie, Greta nata il 1995 e Barbara il 2002.
Sintesi del profilo artistico.
Eugenio Macedonio, figlio d’arte, enfant prodige, segue le orme del padre nell’apprendimento dell’arte della ceramica.
1952 all’età di sei anni, partecipa a un’esposizione d’arte con un bassorilievo di circa cm 15x35, rappresentante un toro, avendolo nascosto nella cassa della spedizione delle opere paterne.
Ottenne l’incarico di studiare ben due modelli di “servizi da thè”, da committenti ignari della sua giovane età, fatto che fu per la famiglia motivo d’ilarità.
1952 al 1966 si dedica alacremente alla realizzazione di manufatti in ceramica, unici nel loro genere: tutto tondo, bassorilievi o pitture su piastrelle, rappresentanti la visione del mondo dalla sua giovane età e tuttavia già padrone delle diverse tecniche.
Fu suo padre Peppe Macedonio a insegnargli con infinita pazienza quest’arte, trasmettendogli molto più di quanto c’era da conoscere “sull’universo della ceramica”, andando oltre l’apprendimento delle diverse e complesse tecniche di realizzazione. Il padre, uomo colto e preparato, impartiva al figlio questi insegnamenti, lasciando trasparire la sua particolare “filosofia di vita”, al di fuori di ogni canone ripetitivo, in cui ogni opera in ceramica è e deve essere “espressione di un pensiero descritto attraverso la forma e il colore”.
La ceramica d’arte di Eugenio, prima di lui di suo padre, si discosta totalmente dai prodotti artigianali allora esistenti.
1959 riceve la prima comunione, il padrino sarà il Prof. Gennaro Borrelli che negli anni seguirà da collezionista ed estimatore, la carriera del maestro Peppe Macedonio.
Nello stesso anno, e fino al ’61, riceve il secondo premio, per le opere esposte alla rassegna internazionale dell’artigianato artistico nella Mostra d’Oltremare, premiate con medaglie d’argento e diplomi, i cui primi premi al padre, Peppe Macedonio (Documentazione Ente Mostra d’Oltremare, Napoli).
1961 Eugenio esordisce, con una sua personale di ceramica e disegni, nell’isola d’Ischia, Ischia Porto, alla galleria d’arte cenacolo “La fornacella” di Vincenzo Murolo, scultore verista, riscuotendo un successo internazionale (Articolo de “Il Mattino” e de “il Roma”, emeroteca della B.B. Nazionale di Napoli).
1962 È invitato a partecipare a una rassegna Europea d’arte della ceramica artistica per la manifattura di oggetti d’uso, tenuta a Monaco di Baviera.
1964 consegue il titolo di “maestro d’arte per le arti pittoriche”, avendo avuto come maestri Casciaro, Chiangone, Striccoli, Tatafiore e altri dello stesso calibro.
S’iscrive all’accademia di Belle Arti di Napoli in sezione “pittura”, ma avendo maturato molta esperienza con i grandi, ne resta presto deluso e l’anno successivo cambia per dedicarsi agli studi di “scenografia”.
Eugenio Macedonio è attento a ogni nuovo fermento culturale e stabilisce rapporti dialettici con critici delle arti decorative. L’attrazione per le nuove espressioni delle immagini lo spinge verso la frontiera della fotografia, stravolgendo anche in questa arte il modo di vedere e fare. La fotografia, per lui, non è più solo strumento di memoria ma testimone di un mondo interiore e filosofico, riproducendo ciò che la realtà non rivela e che la macchina non riesce a riprodurre. L’obiettivo della macchina fotografica diventa l’occhio interiore dell’artista che dà voce psichica a immagini reali. Lascia quindi definitivamente la ceramica, pur amandola molto, poiché non intende competere con la lirica del genitore che ha assunto vette irraggiungibili. 
1965 insieme con artisti famosi, fonda un gruppo d’arte.
Frequenta la “galleria Caiafa” in via Montesanto, “punto di riunione” dei massimi artisti e della cultura partenopea. Espone in Napoli gigantografie che suscitano interesse e scalpore. Lo studio dell’immagine converge con gli apprendimenti scenografici e questo lo spinge a compiere frequenti viaggi alla ricerca delle radici dell’’arte mitteleuropea, prima presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera, poi in quella di Parigi.
Principale critico di se stesso e perennemente alla ricerca della verità, è osservatore altrettanto severo di coloro che saranno definiti i “grandi maestri”, con le loro fragilità di uomini. Il “dietro le quinte” di questi fulgidi artisti, gli mostra un mondo dove la vita è involta in se stessa e senza apertura, diametralmente opposto al suo modo di concepire l’arte.
1966 fa ritorno a Napoli, dove riprende gli studi di scenografia.
1967, Il diciassette di Aprile, consegue l’abilitazione per l’insegnamento della Storia dell’Arte negli Istituti di Stato, a quei tempi la più importante e difficile, giungendo tra i sei unici candidati prescelti. Nella sua tesi paragona la descrizione dei templi greci e cristiani a confezioni di prodotti commerciali, in cui entrambi gli “involucri”, sono concepiti per attrarre il pubblico e pubblicizzare il prodotto. Tesi che, se dapprima sconvolge e scandalizza la Commissione Nazionale preposta, (si ricorda che siamo nel ‘67!), nella discussione, invece, è compresa appieno, apprezzandone la lungimiranza.
Nonostante ne abbia i titoli, non insegna mai Storia dell’Arte, giacché avrebbe dovuto seguire schemi e principi che, a suo giudizio, sviliscono la stessa materia di studio dissociandola dal contesto reale.  
Su invito a realizzare una personale, partecipa insieme al gruppo da lui fondato, con opere di pittura e fotografia in Torre del Greco, Napoli e in seguito a Portici. Intervennero all’inaugurazione molte personalità della cultura e dell’arte come il dott. Ciro Ruju, critico d’arte e il prof. Gennaro Borrelli; diverse testate giornalistiche riportarono gli eventi, a testimonianza del fermento culturale in atto. (articoli emeroteca, Biblioteca Nazionale di Napoli)
Invitato ad un’esposizione personale di immagini fotografiche presso la galleria Caiafa, è l’apoteosi di un anno di eventi strepitosi e Eugenio Macedonio, non manca l’appuntamento, da tempo meritato, con la gloria.
1968 è chiamato ad assolvere per 15 mesi il servizio militare. Tutto quanto ha faticosamente costruito, è congelato o peggio ancora, decaduto. Un disastro annunciato. La carriera artistica ha tempi ben precisi e non può essere paragonata ad altre; l’interruzione forzata danneggia l’artista che fino a quel momento aveva bruciato tutte le tappe.             
1969 riprende il discorso mai lasciato con la fotografia, avendo concepito la visione “esoentrospettiva”, slegando le immagini fotografiche dai riporti di memorie, donando a questa tecnica nuova dignità, attraverso più profondi concetti, scaturiti dalle possibilità delle immagini di manifestare il reale attraverso se stesse.
Realizza una personale di gigantografie alla galleria Ferrari al Vomero e nel 1970 un’altra esposizione personale. Il successo è enorme, seguito da dibattiti e inviti ad approfondire il concetto di arte come incontro tra prodotto di consumo e cultura. Il consenso gratificante gli giunge da più parti anche da quei salotti buoni e dalla cultura borghese che da sempre ne contrasta il pensiero e per coerenza è lesto a starne lontano.             
Il linguaggio della fotografia è ormai l’unica espressione d’arte del Macedonio che assurge a vette talmente alte da fargli ottenere per “chiara fama”, oltre che per titoli, l’insegnamento di una branca della grafica pubblicitaria nel nascente Istituto Statale d’Arte U. Boccioni di Napoli.
Infatti, nel 1971 è il primo in graduatoria, non per una ma per ben cinque cattedre per l’insegnamento della branca pubblicitaria, scegliendo la ripresa fotografica (Documentazione archivio Istituto U. Bocconi).
È da considerarsi quindi insieme ad Antonello Leone (direttore del nascente I.S.A.), all’arch. Franco Lista, a Luigi Castellano (al secolo “Luca”) pittore di fama internazionale, al prof. Salvatore Oppido, grafico e altri artisti napoletani, il “fondatore” dell’istituto Statale d’Arte U. Boccioni, per la sezione dedicata alla Grafica Pubblicitaria. 
1972 presiede una mostra personale di diapositive in Napoli. Sottoscrive un importante documento provocatorio: “Contro l’Arte e gli Artisti” ; durante un evento culturale, ha un incontro informale con il critico d’arte Carlo Argan, con il quale ha un breve e acceso colloquio.
1973 è richiesto come art director per un’azienda internazionale di pubblicità; per molti il coronamento di un sogno ma egli collabora ai progetti saltuariamente, a causa dei diversi impegni.
Nello stesso anno è chiamato a rinnovare il documento “Contro l’Arte e gli Artisti”, fondato dal critico d’arte dott. Ciro Ruju ( critico d’arte e poi Direttore dell’Istituto d’Arte di Sorrento), con plauso e consenso della stampa.
1974; è immerso nel ruolo di Docente Straordinario per la Cattedra delle Arti, legate alla fotografia pubblicitaria. Espone al Vomero insieme a un nuovo gruppo da lui fondato tra i quali figurano Vincenzo Bergamene, suo allievo, ora ordinario d’immagini visive presso l’AA.BB. di Napoli.
1975; espone in Napoli con una sua personale, ma ha già in mente di far evolvere la comprensione dell’arte attraverso lo stimolo di più sensi.
Dal 1976 al 1978, espone e assiste a molte mostre personali, collabora alla “Prop Art”, con Luigi Castellano, al secolo Luca e con l’Arch. Franco Lista.
(Archivio Galleria Guida a Port’Alba).
1978 anno in cui perde per sempre l’amatissima moglie Imelde; il lungo ricovero ospedaliero, causato dall’incidente, lo pone di fronte a una nuova visione di vita. Affronta un percorso esistenziale che lo porterà ad attraversare molte e dolorose vicissitudini, in cerca di quei valori duraturi e universali.
1980 anno caratterizzato da un tremendo terremoto che contribuisce a stravolgergli l’esistenza.
1990 al 1992, presenta “opere da gustare”, insieme alla sua compagna Giuseppina, con il “ristorante d’arte”, inaugurato per l’occasione, esprimendo concetti non più attraverso il senso della vista, come per le arti visive, né tantomeno l’udito, come per la musica, ma attraverso il gusto, strabiliando gli avventori con sue personali creazioni. L’animo d’artista poco si adatta alle regole del commercio, ragione per lasciare tutto e intraprendere con la compagna un lungo viaggio su un panfilo a vela d’epoca, dal ’92, fino alla fine del ‘95. Durante i brevi scali nel Mediterraneo, visitando vecchi cantieri navali, assistono al degrado e all’incuria di molti oggetti di altri tempi, appartenuti alla vita sul mare e trattati come rifiuti, mentre Eugenio e Giuseppina li considerano testimonianze storiche del lavoro sul mare. I racconti degli uomini di mare come i pescatori, i marittimi, i militari delle Capitanerie, il vivere le loro stesse esperienze e difficoltà, condividendo la durezza di questo mondo, li coinvolgono sempre più instillandovi la convinzione che di questo mondo e della storia dei suoi uomini si sappia poco e che se ne sottovaluti il valore. È dal mare che è nata la vita e dal mare i primi uomini si sono spinti verso nuove frontiere, colonizzando per poi diffondere la civiltà.
Già nel ’92 coltivano l’idea di realizzare un Museo, che dovrà essere Etnologico e Marinaro.
Decidono quindi di sbarcare per cominciare i lavori e come spesso accade ai pionieri, aprono la strada ad altri.
1995 dopo diversi ostacoli e vicissitudini, avvalendosi della brillante collaborazione di Francesco Russo, finalmente Eugenio Macedonio, Giuseppina Prencipe e Francesco Russo, presiedono il “taglio del nastro” per l’inaugurazione del Museo Etnologico Marinaro Partenopeo, nato sull’isola di Procida, Golfo di Napoli, con la partecipazione di un gruppo di amici procidani, come Giovanni Montefusco e la disponibilità del Sindaco dott. avv. Luigi Muro.
 All’inaugurazione, partecipano personalità della cultura e politiche, così come un consigliere del Parlamento Europeo. Il Museo è di grande interesse, per ciò che in esso è contenuto, testimonianze della cultura e della storia marinara del Mediterraneo, dal neolitico agli anni ’50, attraverso un percorso descrittivo e reale di grande fascino. La presenza di un laboratorio sul mare in cui, con ogni tempo, si mettevano in pratica i diversi metodi di navigazione a vela compiendo il periplo dell’isola, è la dimostrazione pratica di un Museo attivo, volto non solo alla memoria ma a far rivivere la storia. Il Museo ha è fornito di documentazione bibliografica di genere, cui è concessa la consultazione. (Documentazione presso la sez. Musei della Regione Campania)
1996; i rappresentanti del Museo sono invitati e partecipano, alla “Biennale del Mare” tenutasi al Castel dell’Ovo, espressione politica di progetti e progettazioni.  Gli ovvi conflitti d’interesse nei confronti del Museo Etnologico Marinaro Partenopeo, unico faro della cultura marinara, nato per funzionare e non per pura speculazione politica, produce l’essere esclusi dal catalogo per cui questa partecipazione, a tutti gli effetti, non risulta avvenuta. (Documentazione fotografica della partecipazione del Museo Etnologico Marinaro, in possesso dei fondatori).
Al biennio successivo, Eugenio Macedonio, compreso l’imbroglio, declina l’invito.
2001 si dimette dalla carica di Sovrintendente del Museo Etnologico Marinaro Partenopeo, rifiutandosi di seguire politiche da palazzo. (La documentazione originale è conservata presso gli uffici Regionali, il Comune di Procida La Provincia di Napoli).
2002 a tutt’oggi, Eugenio Macedonio continua a lavorare alle opere fotografiche, di sua concezione; si è trasferito, con la famiglia in campagna, lontano dallo sterile blaterare urbano, per apprezzare quei momenti lirici tipici delle filosofiche ideologie naturiste, pure nella loro essenza.
In virtù di non aver mai sfruttato il nome del genitore e aver realizzato la carriera solo attraverso merito, oggi intende dedicarsi alla conservazione e la tutela del nome e delle opere del massimo Maestro ceramista del ‘900, Peppe Macedonio, come amava farsi chiamare.
La sua presa di posizione è dovuta al fatto che il tempo genera mostri e i pirati navigano spesso in acque basse e non sospette.





















































Le memorie usate come fonti certe, sono estrapolate dai ricordi del Maestro Peppe Macedonio, Ceramista, lasciate a suo figlio Eugenio, in particolar modo tra il 1980 e il 1985.
La memoria storica suppletiva per le parti mancanti, è di Eugenio Macedonio.
Ogni contestazione a quanto qui riportato è di unica competenza del tribunale di Benevento.



Il documento è stato eseguito in difesa della figura del Maestro Peppe Macedonio, Ceramista. Stampa e veste sono state realizzate in proprio ed a proprie spese, non ha fruito di alcun contributo privato o pubblico ed è distribuito in forma privata solo gratuitamente, su specifica richiesta, con dedica alla persona.

La veste grafica e l’impaginazione sono di Greta Macedonio.


































































Finito di stampare con i propri mezzi
il 10 di luglio 2011