domenica 25 marzo 2012

Un augurio dal prof. Eugenio Macedonio, a quanti festeggiano il 19 di marzo.

Un augurio alla compagna della vita, Giuseppina e ricordando nell’augurio mia madre e mio padre, accomunati dallo stesso nome, dedico a tutti i Giuseppe un aneddoto  sul massimo ceramista Italiano del ‘900, Peppe Macedonio, mio padre, adatto a far comprendere come nasce distante l’ispirazione, indipendentemente dall’opera d’arte.

L’occasione del racconto mi permette di non far dimenticare quanti per personali scopi, hanno contribuito a denigrare la figura del Maestro, attraverso personali supposizioni.

Nulla di quanto è narrato in queste pagine è di fantasia. Per tale ragione, e per la stravaganza della storia, ho lasciato i nomi di quanti vi parteciparono. Essi ricordano!





Vasi da “Farmacia”, ispirati ai Contributi Regionali per l’editoria.


                                 
La storia ebbe inizio nel 1967 e intende raccontare in qual modo Macedonio, ebbe l’ispirazione e in quale modo realizzò un numero imprecisato di monotipi in ceramica che a uno sguardo superficiale possono apparire come vasi da farmacia.
Premessa.
In cui sono narrati altri e diversificati motivi, in apparenza distanti dai pensiero di Macedonio, più legati a un altrui quanto diverso, momentaneo, in cui l’improvviso interesse per la conoscenza della ceramica, esploso in altre menti, coinvolge una diversa vocazione. Essa genererà una ragione che intrecciandosi con la “ascetica” sapienza del Maestro diventa causa dell’ispirazione che porterà al concepimento di questa serie di monotipi.
Evento descritto in maniera scevra da personali commenti o intercessioni affettive, adatto a dimostrare in maniera non interpretativa, il suo pensiero.
I fallaci tentativi di altre penne, inadatte a descrivere le opere del Maestro, traggono conclusioni arbitrarie e personali, senza fondamento, proferite con l’arroganza e la sfrontatezza d chi senza conoscere, tenta di riempire uno spazio che comunque rimane vuoto e fallace.
Sono tentativi balordi, inadatti a interpretarne il pensiero e l’opera.
Si può immaginare!
Ho ritenuto questa bella storia adatta a far comprendere che scrivere su Macedonio, significa doverne forzosamente conoscerne il pensiero in maniera profonda, poiché esso, sempre ha inizio da punti distanti e impensabili, come accade per quanto segue.
La storia.
Bisogna sapere che in quegli anni, molti cultori in erba avevano scoperto che era possibile pubblicare manoscritti, senza spendere il becco di un quattrino, attraverso l’accesso a fondi Regionali preposti a tale scopo.
Questo fatto, salvando la pace dei meritevoli, generò libri che quasi mai avevano un benché minimo contenuto culturale.
Come dire… ciarpame inutile per la cultura, da cui però, si era scoperto che si poteva attingere per ricavarne un diverso lucro.
La copiosa produzione di manoscritti dava un forte impulso editoriale che produceva materiale non tanto di qualità, quanto adatto alle bancarelle, tanto che molti editori, in seguito, finirono per stampare solo per questa finalità, anticamera di un riciclaggio, poco probabile ma che a sua volta, diventava perfetto come fonte di guadagno. Possibilità che andava relazionata alle Associazioni Culturali di quartiere; nate non casualmente, per lo più sotto l’egemonia delle Parrocchie che in questo ne garantivano l’operato.
Associazioni cosiddette Culturali che appoggiandosi al filone del riciclaggio, molto di moda tra gli sciocchi creduloni, fornivano possibilità a giovani desiderosi di rendersi utili alla Chiesa, subito accontentati attraverso un’equa divisione dei compiti, in cui, da un lato rimanevano i più che ingenti contributi, ricevuti con tale garanzia e dall’altro il lavoro di raccolta, conseguito peraltro a proprie spese.
C’è da dire che In realtà a nessuno interessava il riciclo della carta, perché il costo era superiore all’impresa e non valeva la pena, per questo motivo, le raccolte compiute, erano abbandonate agli angoli delle strade.
In questo sperpero pubblico, gli organi di Stato preposti ai controlli, non avevano voce di merito, poiché la faccenda era in fondo legale; così non solo il danno, ma una beffa in cui l’Ente Regione, approvava un progetto di raccolta adatto a riciclare carta e stracci, sapendo che era impossibile realizzarlo, mentre il Comune approvava gli straordinari degli operatori ecologici per raccogliere e smaltire la materia prima abbandonata sul suolo pubblico.
Questo, accadeva a sostegno della cultura scritta, ma c’era dell’altro.
La difficoltà maggiore cui dovettero far fronte i molti improvvisati “ scrittori” ansiosi di pubblicare le personali ricerche, fu il ricercare il materiale adatto a redigere le loro opere e questo in genere, e in ogni campo, avveniva sfruttando le altrui conoscenze.
Fra i molti personaggi di valore, “corteggiati” per questo scopo  nel campo della ceramica, vi era Peppe Macedonio, “visitato” in considerazione alla sua ben nota disponibilità e al suo sapere  che, andando ben oltre i libri di tecnologia faceva gola ai ricercatori.
Era un periodo in cui vi era sempre una gran quantità di persone per casa, alla ricerca di risposte certe che unite agli stanziali, creavano un discreto affollamento in cui Macedonio in maniera serafica e per niente turbato, svolgeva il suo lavoro.
Questi furono i fatti contingenti, chiari e scevri da alterazioni, adatti tra l’altro a far comprendere il perché oggi molti vantano pubblicazioni culturali.
Esse altro non sono che il risultato di quella fiorente produzione massive.
Nel frattempo e per personale interesse, quest’apoteosi del sapere era in piena virulenza.
Tra i ricercatori, che fruivano di queste possibilità, tenute in gran riserbo e di cui nessuno poteva spiegarsi il perché, vi erano le eccezioni, come il Dott. Guido Donatone, conoscenza di Macedonio collezionista e cultore delle opere e del sapere del Maestro.
Egli, proprio in quel periodo fu incaricato dall’Isveimer, l’Ente Bancario cui era impiegato come dirigente di un settore, di scrivere un libro sulla ceramica.
Considerando che egli non era abituato alla particolare chiassosità della casa studio che vi era in quel periodo e alle centomila interruzioni che impedivano di affrontare un discorso senza perdere il filo del pensiero, chiese al Maestro la cortesia di poter continuare gli incontri presso la propria abitazione, poco distante.
Quest’ampia concomitanza di eventi, fino ad ora narrata condusse alla causa indiretta dell’ispirazione di Macedonio.
Giunti che furono all’ingresso di casa Donatone e avendo egli aperto la porta e fatta strada, il Maestro ebbe la gradita sorpresa di vedere all’improvviso dinanzi a se un’imponente collezione di vasi da farmacia, posti proprio nell’ingresso.
Visione che per un attimo riportò il Maestro indietro nel tempo, alla sua infanzia, ricordando i ripiani cui erano allineati i tanti vasi in ceramica e sul banco con sempre in bella mostra, l’immancabile grande vaso di vetro, colmo di sanguisughe, adatte a “salassi” casalinghi.  Questo ricordo, assaporato con i sensi della fantasia, evocò in Macedonio l’antico profumo della lucidatura dei legni degli arredi e delle spezie, a divenire un’unica essenza classica, indimenticabile.
Fu l’impulso che diede forza al desiderio di fermare quell’emozione, come per tante altre opere ispirate dai suoi stessi ricordi; non memoria nostalgica quindi, ma flash back della sua esistenza che, è simile nei contenuti, non uguale.
Fu la visione dei tanti antichi vasi, che riportando il Maestro di la del tempo, gli diedero un prorompente impulso adatto a trasmutare quanto osservato nel suo animo in una filosofia adatta a palesare nuove quanto simili forme evocative.
Non copia di qualcosa visto e voluto, quanto il materializzare un intimo momento legato ai ricordi personali.
Le stesse forme dei vasi da farmacia realizzate successivamente dal maestro, non sono, quindi, simulacri delle forme ammirate nella collezione del Dott. G. Donatone o ricordi di differenti vasi da farmacia.
Sia chiaro.
Per i fruitori della casa laboratorio, fu un lungo happening, in cui Macedonio, un po’ per gioco un po’ seriamente, cominciò a pensare in quale modo poter costruire l’attrezzo necessario a produrre i vasi. L’attrezzo, altri non era che un tornio, proprio così un tornio per ceramica e questo fatto infervorò ancor più gli animi degli stanziali, forse contribuendo a dare forza al maestro per continuare.
All’esecuzione del progetto tecnico erano presenti Evangelista, Pippo, Leonetti, Mautone, Centorbi mentre gli altri frequentatori saltuari si avvicendavano per motivi diversi.
La ricerca tecnologica.
La logica voleva che Macedonio incaricasse Rovinolo, oppure Riparini, due più che validi tornianti, antiche conoscenze del Maestro, (almeno per Rovinolo fin dagli anni ’30), ma per farlo avrebbe dovuto muoversi da casa e questo voleva evitarlo…
Così fece come il solito, di necessità virtù, giocando con la fantasia e la proverbiale manualità.
In realtà, da tempo immemorabile, nella casa studio esisteva già una tornietta o torniolo per ceramiche, molto robusto e solido, adatto per dipingere oggetti rotondi su cui era sufficiente posizionare l’oggetto da dipingere, appoggiarvi il pennello intriso di colore e girare la tornietta per ottenere sull’oggetto delle strisce colorate.
Strumento mai utilizzato…
Ebbene, Macedonio pensò di trasformare quest’oggetto in un tornio da ceramista, modificandolo empiricamente.
Erano anni del Maestro, maturi e spensierati.
Si procurò una puleggia da alternatore completa di asse, un trapano dalla velocità variabile, a quei tempi una raffinatezza della scienza e della tecnica, un paio di vecchie calze della moglie Pina, a completamento della lista del materiale occorrente.
Fissò la tornietta al piano di lavoro molto saldamente e poco più distante, praticò un buco cieco nel legno del tavolo in cui inserì l’asse della puleggia che dal lato opposto fu fissato al mandrino del trapano tenuto verticale a mano.
Il tutto era traballante e molto precario, ma non importava; annodò strettamente le calze e ne fece una cinghia di poco più stretta della lunghezza del periplo, inserendola tra l’asse del torniello e la puleggia, in modo che, raddrizzando il trapano, si sarebbe tesa, trasmettendo i giri al torniello: questo era il tornio.
Le risate, i commenti e le prove fioccavano da ogni parte e l’ilarità accompagnava il tutto, tanto che addirittura ci si dimenticava cosa si stesse facendo.
Terminata la costruzione, ingrassato il torniello e il buco cieco nel legno che manteneva l’asse della puleggia, tale opera tecnologica fu pronta ad accogliere la creta per la prova generale.  
Per funzionare, però, si abbisognava che una persona attivasse il trapano, badando di variare la potenza secondo l’attrito delle mani del maestro sulla creta, tenendo in tensione la cinghia-calza, in modo da non farla slittare intorno agli assi.
Durante le prove si scoprì che l’argilla doveva essere più morbida rispetto al solito per produrre meno attrito, ma non tanto altrimenti sarebbe collassata.
Insomma si studiarono le misure da adottare.
Ci volle un po’ di tempo per raggiungere un optimum adatto a realizzare dei monotipi, ma erano a buon punto.
Si comprenda però che Macedonio non poteva dedicarvi tutto il suo tempo, ma solo i ritagli, impegnato com’era a insegnare nella scuola e a produrre altre opere.
Dagli e ridagli alla fine si riuscì nell’intento, avendo trovato un equilibrio permissivo.
Era una domenica pomeriggio quando Macedonio pensò di iniziare la produzione dei monotipi; ricordo che si era alle quattro del pomeriggio, il sole era ancora alto, quando avvenne ciò che a tutti gli effetti si poté definire un vero “miracolo”.
Era giunto, per una visita di piacere, Rovinolo, il maestro torniante!
Figura altera e molto elegante, somigliante a Vittorio de Sica, uomo dal bel portamento; quel giorno indossava un completo estivo grigio chiaro in canapa e un cappello intonato a falde, scarpe nere chiuse, lucidissime.
Non vi racconto cosa accadde ma alla fine di quanto non detto e non scritto, ritroviamo il gentile Rovinolo, spogliato degli abiti eleganti e  indossato qualcosa di più modesto, con le scarpe infilate in due sacchetti di plastica, coinvolto a provare il funzionamento di questa opera tecnologica, battezzata dal quorum la “settima meraviglia”
Si mise in movimento l’apparato ma, si vuole per l’emozione o per una casualità emotiva, la prova fu un fiasco totale, l’opera in creta cresciuta in altezza, si proiettò quasi danzando fuori dal pseudo tornio.
Eppure in precedenza sembrava avesse ben funzionato.
Fu questa disfatta che rese esitante il bravo torniante che cominciava a divertirsi, oramai anch’egli preso da questa febbre e deciso a realizzare l’irrealizzabile, il più emozionato era Pippo, responsabile della velocità del trapano che, sotto nuove indicazioni di Rovinolo, badava a tenere costante e lenta la rotazione del tornio.  
Dopo diverse prove e molte risate (l’allegria era di casa nell’abitazione-studio del Maestro) il primo vaso riuscì, con l’esultanza di tutti, da Centorbi a Mautone, da Leonetti a Evangelista mentre Pippo era felice di essere divenuto super esperto.
In quell’occasione Rovinolo, uomo di spirito e per l’antica amicizia nei confronti di Macedonio, dopo i vasi fece anche i coperchi.
In realtà fu il travolgente entusiasmo a far si che nonostante l’attrezzo bislacco, riuscisse a realizzare un numero imprecisato di vasi, velocissimo e bravissimo, tutti perfettamente uguali, utilizzando come “mostra” per l’altezza da conferire ai vasi e alle svasature, tre tranci d’uva infilati nella creta.
Nella realizzazione, modificarono anche la forma, facendone alcuni cilindrici con un coperchio a forma di tronco di cono molto basso che terminava con un pallino.
Non vi è alcuna rappresentazione fotografica di questo secondo modello di vaso cilindrico, lo s’intravede in una foto d’insieme, scattata anni dopo, divenuto un porta stecche di lavorazione per Macedonio.
Gli altri vasi, sul modello “farmacia degli incurabili”, come da immagine, furono rifiniti poi in seguito da Macedonio, cotti, dipinti e ricotti.
Macedonio non realizzò molti esemplari, anche se non posso dire il numero esatto. Tra i due diversi modelli, a un calcolo approssimativo non furono più di una quindicina.
Ebbi appena il tempo di fotografare gli ultimi due rimasti, prima che finissero in anonime collezioni, anche se uno era imperfetto nella chiusura, mentre il secondo addirittura roto in più parti e incollato da Macedonio stesso.
Con questo racconto che altro non è se non una lunga prefazione, si comprende come spesso la musa ispiratrice possa partire da concetti lontani e discosti.
Filosofie che certo se non si conosceranno mai osservando l’opera permettendo di farne al più una sommaria descrizione.
L’opera.
Macedonio fu folgorato dall’aspetto d’insieme degli antichi vasi volle riproporli. Non ebbe mai intenzione di ripetere le antiche forme come copie conformi, quanto di mantenerne il ricordo alla memoria sotto forma di nuovi contenitori.
Osservandoli non si può fare a meno di vedere la colorazione diversa, lasciata ad altro estro, in cui Macedonio si abbandona a una pura, fresca, quanto estemporanea ispirazione di pittura paesaggistica, lontana dal concetto primevo.
Omette intenzionalmente l’etichetta del nome ipotetico del prodotto che in teoria, un vaso farmaceutico, deve possedere per tradizione e questo da solo ne distoglie il concetto allontanandolo dall’antica ispirazione.
Una concomitanza di eventi lontani, da cui non casualmente nasce un’opera filosoficamente nuova, la cui forma non permette che si perda l’antica memoria e avendo compreso l’intendimento del Maestro, comprendiamo che solo su di un lato della sua superficie è dipinto un paesaggio, il lato a vista, come si dice, mentre sull’altro lato, vi è una strana quanto incomprensibile immagine del cui significato c’interesseremo nella conclusione, poiché Macedonio riserva sempre delle sorprese.
Ogni monotipo è simile ma diverso nella colorazione, dovuto alla rappresentazione spontanea e occasionale, non manierata, espressione di una scuola pittorica da acquerello, veloce nel tratto e fresco nell’immagine, la cui lettura ci mostra un panorama di tipo medioevale di un bel blu cobalto.
Può piacere o lasciare indifferenti, anche se come profondo, quanto unico conoscitore di Macedonio, posso affermare che trovo sempre stupefacente, osservando le sue opere, sentire lo sguardo penetrare nella profondità delle immagini e fondersi in esso, comprendendo quanto lo stesso maestro ha inteso, ottenuta con pochi, quanto saggi e veloci tratti di pennello.
Quanto invece rimane particolarmente a cuore, è chiarire il concetto sulla colorazione usata da Macedonio.  Senza mai fare dimenticare che in pubblicazioni di poco interesse, una amanuense totalmente impreparata, tentò fallendo miseramente nell’impresa, di dare un senso a Vietri,  Macedonio e il verderame, lasciando solo miseramente comprendere  come la mancanza di conoscenze permette solo una personale interpretazione, inutile, quanto irriverente nei confronti di quanti leggono.
Ragione per dare personali chiarimenti sul colore e le tradizioni.
Macedonio per questi vasi volle usare una colorazione blu cobalto, ritenendolo piacevole e distensivo, certamente senza pensare che tale colore potesse appartenere alla tradizione della ceramica di Delft, Olanda.
Ogni colore rientra in una differente tradizione.
Nel caso che Macedonio al posto del blu avesse scelto il giallo aranciato, sarebbe rientrato nella tradizione di “Cerreto Sannita”, mentre scegliendo il manganese sarebbe rientrato nella tradizione delle belle ceramiche di Cava dei Tirreni che usa  quella colorazione, mentre usando il verderame, rientrava, senza scampo in quel che è la tradizione vietrese.
Si comprende, da questo miserrimo specchietto che ogni colore per ceramica, sia parte di una diversa tradizione pittorica, Regionale, Nazionale o Europea e che la sua scelta comporta la possibilità di appartenenza ipotetica per la tradizione, non certo per l’uso della tinta.
Così ci si auspica di non leggere più su Macedonio, concetti raffazzonati.
Rimane da decifrare il significato di quello strano disegno posto nel lato nascosto del vaso a forma di stemma gentilizio ma che a una più attenta osservazione non richiama concetti di nobiltà.
L’interno del blasone sembra contenga il disegno di una bilancia, ma in realtà anche questo è in forse. I due bordi che in alto si arrotolano, sembrano occhi, mentre le stesse linee scendendo verso il basso, disegnano un volto dagli zigomi alti dal contorno idealizzato, mentre in basso, si richiude nel mento.
Il volto al centro ha uno strano segno che non è il simbolo della legalità, cioè la bilancia, quando il segno zodiacale del Mastro, cui la parte centrale, assume anche il ruolo di naso e di baffo.
Un autoritratto burlesco dove, con un gioco criptico, il Maestro sembra sfidare l’osservatore a rilevarlo.
Con ironia ha giocato sulla cultura superficiale delle persone, creando un qualcosa che in realtà non esiste ma che chi lo guarda crede di conoscere.
Anche qui ha lasciato libertà concettuale … chi osserva trae personali conclusioni secondo della sensibilità, cultura o presunzione, mentre in realtà è tutt’altra cosa.

Un augurio di cuore ai Giuseppe, in particolare a mio padre, massimo ceramista del ‘900, non al  maiolicaro scultore da bottega, come viene  descritto da cari amici di “cultura”, con l’assenso della figlia lucia. Vergogna!
Ciao papà tanti auguri.
Tuo figlio Eugenio.
Ricordo a quanti sono di memoria corta e coscienza sorda che è importante avere fede e non disperare, gli effetti dell’anatema quanto prima si faranno sentire, so per certo che proseguono inarrestabili nel percorso prestabilito, con lentezza ma senza soste, offrendo quanto promette soltanto a quanti hanno acquisito il dritto di fruirne.

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